***Capitolo 57: Perché

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Il primo giorno dopo il ritorno di Aron lo passai a letto

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Il primo giorno dopo il ritorno di Aron lo passai a letto. 

Quando la sveglia suonò alle sei e mezzo del mattino, chiamai Paul, gli dissi che ero ammalata, poi lasciai cadere il telefono da qualche parte tra le lenzuola, mi raggomitolai a palla, tirai la coperta fin sopra la testa e tornai a dormire.

E quando mi risvegliai due ore dopo era ancora buio, le tapparelle ancora abbassate, non le alzai perché non avrei sopportato la vista del sole; andai in bagno, poi tornai in camera, chiusi a chiave la porta, mi ributtai a letto e attesi che il sonno tornasse di nuovo per poter sfuggire ai miei pensieri e a tutto quello che non volevo affrontare.

Il secondo giorno, alle sette in punto, mia madre bussò alla mia porta e nonostante le mie proteste non mi permise di fingermi ancora ammalata. Una parte di me se lo aspettava, sapevo che non mi avrebbe concesso di chiudermi di nuovo nel mio buco, non quando il ricordo dei mesi appena passati era ancora fresco nella sua mente e in quella di mio padre.

Perciò mi alzai, mi lavai fissando apatica l'acqua che correva lungo le mattonelle e giù per lo scarico, mi vestii, frequentai le lezioni del corso senza recepire nulla. Al lavoro salutai Paul, gli dissi che stavo meglio, solo un malessere passeggero, forse avevo preso freddo, e per il resto della giornata finsi che tutto fosse normale, che Aron non fosse tornato, che la mia mente non somigliasse a una poltiglia che qualcuno aveva infilato dentro un frullatore per poi accenderlo sadisticamente, che il dolore al centro del petto non avesse tirato fuori di nuovo gli artigli ricordandomi tutto quello che era stato, tutto quello che sarebbe potuto essere, tutto quello che non sarebbe stato mai più.

Il terzo giorno scesi alla spiaggia.

Vidi Aron subito, da lontano.

Era l'unica persona presente - d'altronde era dicembre e il mare aveva smesso di essere una meta popolare da un pezzo, se non per pochi.

Era seduto sul grande tronco bianco che tutti usavano come panchina, le mani in tasca, muoveva distrattamente la sabbia con la punta delle scarpe. Mi notò tardi, solo quando gli fui davanti; la sabbia morbida e umida aveva nascosto il rumore dei miei passi. Colto alla sprovvista si alzò in piedi, un po' impacciato, e il suo respiro sorpreso si condensò nell'aria in una nuvola bianca.

Ricordai a me stessa che ero venuta soltanto per ascoltare le sue ragioni, soltanto per poter finalmente trovare una risposta a tutte quelle domande che altrimenti mi avrebbero tormentata per il resto dei miei giorni, anche se le avevo spinte in fondo alla mente.

Scendere alla spiaggia e accettare di rivederlo erano solo un modo per poterci mettere definitivamente una pietra sopra, chiudere il cerchio e andare avanti senza lasciare nulla in sospeso.

Forse era proprio quello che mi mancava, ciò che non permetteva alla ferita di rimarginarsi completamente: il non sapere il perché di troppe cose.

"Ciao", disse.

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