***Capitolo 44: Enigma del sublime

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Aron immerse il pennello nel bicchiere d'acqua, lo asciugò leggermente sul tovagliolo di carta e poi lo intinse sulla tavolozza, dritto nella densa macchia di colore verde.

Seduta sul divano, con le ginocchia strette al petto e le braccia a circondarle, lo osservavo dipingere.

Le sue belle mani acquistavano ancora più eleganza quando brandivano un pennello, si muovevano sicure come se fossero nate appositamente per quello. Erano macchiate di colore, così come la maglietta bianca che indossava, e l'odore della pittura fresca era forte nonostante le finestre fossero aperte.

Il cielo sembrava aver preso fuoco in quella sera di Agosto. Il pittore del cielo aveva rubato il colore dalla tavolozza di Aron e aveva dipinto la distesa azzurra di rosso sangue. Vedevo uno spiraglio di luna far capolino da dietro un tetto mentre il sole scompariva dietro gli edifici infuocando il profilo della città.

Riportai lo sguardo sul mio romanzo dimenticato sul cuscino del divano - aperto e rovesciato, fermo sulle ultime venti pagine - e decisi di alzarmi e raggiungere Aron vicino al tavolo.

Stava dipingendo un albero.

L'intero tavolo era pieno di disegni, dipinti, abbozzi di alberi, singoli rami, tronchi, foglie.

Quando gli avevo chiesto il perché di quel soggetto ripetuto così tante volte, mi aveva detto che in quel periodo aveva l'ispirazione per gli alberi e che l'ispirazione andava sempre assecondata perché era rara e sfuggente.

"Hai finito il tuo libro?", domandò voltandosi verso di me. Con la mano che reggeva il pennello si spostò il tirabaci fuoriscito ancora una volta dall'elastico e nel farlo la punta sporca di colore gli lasciò una macchiolina verde sullo zigomo.

Scossi la testa. "Mi manca l'ultimo capitolo, ma non lo voglio ancora leggere."

"Non sei ancora pronta ad abbandonare la storia?"

"No. Voglio prolungare ancora un po' il momento di dire addio ai personaggi."

Sorrise, ritornò al suo dipinto. Le setole del pennello si piegavano morbide sulla tela sotto la pressione della sua mano. "Devi dirlo prima o poi."

"Non ancora...Ti sei sporcato", aggiunsi riportando lo sguardo sulla macchia di colore. Mi avvicinai un po' di più, posai una mano sul suo volto e con il pollice cercai di toglierla finendo però solo per allungarla. "Ops", mormorai. Potevo prendere un fazzoletto, bagnarlo con dell'acqua e pulirlo meglio, ma il verde richiamava quello dei suoi occhi e mi piaceva guardarlo.

Quando più tardi abbandonò il pennello sul tavolo e si appoggiò allo schienale della sedia con aria definiriva, spostai l'attenzione alla tela.

"È bello", commentai.

C'era dipinto un albero in primo piano, una vallata in secondo. I rami erano contorti, nodosi, e sembravano così realistici che distoglierne lo sguardo mi risultava difficile. Era un po' piegato verso destra, l'albero, sottomesso al vento che infuriava nella valle a malapena illuminata dalla luce del crepuscolo, e il cielo era scuro, tempestoso, attraversato da lunghe nuvole rosse.

"Intenso", aggiunsi. "Un po' inquietante."

Mi tirò per la maglietta facendomi sedere sulle sue ginocchia. Gli circondai le spalle con un braccio e iniziai distrattamente ad accarezzargli il collo con la punta delle dita, mentre entrambi avevamo gli occhi puntati sulla tela.

"Sì?", mi incoraggiò lasciandomi un bacio tra la tempia e lo zigomo. "In che senso è intenso?"

Sembrava sempre curioso delle mie interpretazioni dei suoi disegni, fin dalla prima volta che mi aveva vista osservarli ai binari abbandonati, e in quei giorni lo sembrava ancora di più. Perciò mi concentrai prima di rispondere, cercai le parole più adatte ad esprimere quello che stavo provando.

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