***Capitolo 34: Vagabonda

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Sentire la paura ma farlo lo stesso. Non ascoltare il battito accelerato del cuore che pompava sangue nelle vene. Sentire la testa leggera, quello strano capogiro, talmente esaltante da creare dipendenza, che tornava a trovarmi solo quando sapevo di star facendo qualcosa che non avrei dovuto fare.

I lampioni diffondevano una luce giallastra troppo debole per illuminare a sufficienza la strada e l'unica cosa che sentivo era il rumore dei miei passi sull'asfalto. Camminavo spedita lungo il marciapiede, ma con la mano sfioravo il muro degli edifici, piegavo le dita contro il cemento, come per aggrapparmi in un ultimo, debole, poco convinto tentativo di frenare la mia avanzata. Ma non c'era molto spazio rimasto per pensare a cosa sarebbe stato meglio o più giusto fare. La sola cosa che riuscivo a percepire era il caos che imperversava dentro di me. Nella testa, nel petto, nello stomaco. Volevo che scomparisse e l'ultimo modo rimastomi era quello.

Era difficile fuggire da se stessi e dalle proprie malsane abitudini e quella sera ero ricaduta nella mia abitudine più malsana di tutte.

Era davanti a me, concretizzata nel quartiere più malfamato della città, con le sue strade articolate simili ad un labirinto, dove perdersi era più facile di quanto uno immaginasse. Non sapevo se fosse un punto a mio favore, o chiara testimonianza del mio problema, ma quel quartiere lo conoscevo come le mie tasche e perdermi aveva smesso di diventare un'opzione dopo una volta di troppo che lo avevo percorso da cima a fondo, mappandolo quasi incosciamente.

Come fossi riuscita a tornare a casa illesa ogni volta rimaneva un mistero anche per me, e non potevo escludere che proprio quello era stato uno dei fattori che mi aveva portata, notte dopo notte, a togliermi le coperte di dosso, alzarmi dal letto e ritornare in quelle strade a risfidare la sorte per ricevere in cambio la mia dose di adrenalina.

Roven's Street era il nome. La strada dei pub.

Ora intorno a me non c'era più soltanto il rumore dei miei passi, ma quella che era stata la colonna sonora che mi aveva accompagnata per mesi. Una strana combinazione di silenzio e rumore. Rumore e silenzio. Una porta di un pub si spalancava e la strada prima silenziosa prendeva vita e risate sguaiate e musica di bassa qualità si diffondevano nell'aria. E poi quei pochi secondi di silenzio brutto, quando passavo vicino a degli sconosciuti. Pochi secondi di silenzio prima di incrociare occhi annebbiati dall'alcol, sguardi languidi, provocazioni.

"Vieni a farci compagnia, tesoro!"

"Cosa ci fai tutta sola qui?" Risate. "Ti sei persa?"

"Te ne vai già via?"

E poi c'erano altre combinazioni di silenzi e rumori. Angoli bui di quiete interrotti da lamenti sommessi, parole sconnesse, suppliche.

Appena ne sentii uno mi voltai ed anche se sapevo cosa aspettarmi, quella sera rimasi impietrita. Accasciato contro un muro c'era un ragazzo. Il volto pallido e smunto, lo sguardo spento, la manica della camicia arrotolata e una siringa ancora infilata nella vena. Mi sorrise quando incrociò il mio sguardo e io sentii il cuore gelarmi. Feci un passo indietro e poi un altro e un altro ancora finchè non girai l'angolo e il ragazzo scomparve.

Non era la prima volta che mi imbattevo in scenari del genere, ma quella sera fu diverso perché accasciato per terra non vidi quel ragazzo sconosciuto, non vidi occhi neri ma verdi, e quel suo sorriso continuava a modellarsi e trasformarsi in un altro sorriso, un sorriso tanto familiare da farmi male.

Quella sovrapposizione di immagini fu come una doccia d'acqua gelata.

Mi sembrò di uscire da uno stato di apnea, i confini della strada ricominciarono a farsi più netti, i rumori più vicini e improvvisamente mi ritrovai ancorata al presente, mentre l'adrenalina si trasformava veloce nella sua gemella brutta, la paura senza eccitazione.

Ricordati quandoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora