Servizio giornalistico

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Suo padre aveva acceso la TV e la teneva eccessivamente alta.

Voleva dirgli di abbassarla, ma temeva quel gelo così simile al suo. Si affacciò in salotto, lo stomaco che protestava. Era come uscire da un igloo per camminare sul ghiaccio. S'avvicinò, attento a non calpestare il giornale in terra e fu attratto dall'approfondimento d'un programma scientifico.

«Dopo millenni» diceva la voce del giornalista, «una squadra di archeologi, guidata dal professor Leoni, è riuscita a rinvenire la piramide di cui nessuno sospettava l'esistenza...».

Le immagini mostravano le dune sullo sfondo, in primo piano l'imponente figura di una strana piramide con gli spigoli curvi.

«La cosa più sorprendente è il significato che il professore attribuisce alla costruzione, in netto contrasto con le correnti teorie sull'Egitto antico».

Una figura alta e abbronzata, dai lineamenti sottili, apparve.

«Ciò che mi ha spinto è la convinzione che nelle civiltà antiche si celi una sapienza a noi ignota. I grandi monumenti, le piramidi, gli osservatori astronomici primordiali di pietroni buttati a caso... per me tutto indica una gloria perduta, un tracollo di civiltà che nessun libro menziona, ma che è implicito nella storia stessa. Non lasciamoci ingannare dai materiali adoperati, così poveri... quando il loro scopo è molto più moderno... anzi! L'immagine di antichi che si sforzano di costruire opere superiori ai mezzi adoperati è la prova che hanno altri riferimenti, un altro sistema di conoscenze...».

Daniele iniziò a tremare, seguendo il servizio con apprensione crescente. Aveva sentito, nel TG delle tredici, gli spezzoni dell'intervista che rimandavano alla versione integrale della sera, e non ci aveva badato più di tanto, mentre ora provava terrore.

Il bizzarro professore, stava mostrando i particolari della piramide, interrotto da qualche domanda del giornalista.

«Ci spieghi, professore: ritiene che i geroglifici di questo bassorilievo indichino una diversa utilità della piramide?».

«Certamente. È da escludersi l'utilizzo funerario, non è una tomba. Lei l'ha chiamato geroglifico: in realtà questi caratteri sono qualcos'altro, un alfabeto trovato rare volte nel mondo, il geroglifico, il fenicio, eccetera, sono simbolismi grafici localizzati nello spazio e nel tempo, questo invece è stato osservato in posti diversi e in epoche diverse, ed è lo stesso della seconda stele».

A questo punto partì un breve servizio del ritrovamento del codice d'interfaccia tra le lingue antiche, una stele simile a quella di Rosette, di cui il merito era, ancora una volta, del professor Leoni.

L'intervista riprese.

«Ricorderà senz'altro, professore, il tiepido entusiasmo con cui venne accolta la sua scoperta, nonché l'ipotesi che essa fosse un falso, visto lo scopo che lei vi attribuisce».

«Sono menzogne e malignità dettate dall'invidia, non dalla professionalità della ricerca» rispose asciutto il professore.

«Motivo delle obiezioni, per esempio, è stato il luogo stesso del ritrovamento: Sud America anziché Egitto» aggiunse il giornalista.

«Come spiegherebbero, d'altronde, i miei colleghi, l'analogia profonda tra i caratteri della stele e quelli delle iscrizioni sulla piramide? Proporranno, forse, che li abbia scritti io?».

«Il professor Leoni» disse la voce fuori campo, mentre immagini di repertorio mostravano le fasi della sua carriera, «è autore d'una controversa teoria sulla storia umana, che gli ha procurato non poche critiche, e molti ostacoli ai finanziamenti necessari agli scavi. Fin dall'inizio, l'idea che la stele sudamericana fosse destinata all'uso di pochi eletti, a differenza di quella di Rosette, che è la semplice trascrizione d'un codice linguistico, tra egizio, greco e latino, ha provocato un mare di polemiche».

Vennero mostrati i pareri di due insigni accademici che spiegavano come nella stele di Rosette non ci fosse alcun mistero, anzi, come questa i misteri li risolvesse, aiutando a decifrare il geroglifico, e come quindi il professor Leoni fosse un ciarlatano.

Furono elencate, nuovamente, le idee di Leoni in un collage bizzarro: egizio, greco, latino, inca e maya, nel formalismo della stele che faceva da tabella di conversione, a seconda di come la si consultasse.

«Secondo il professor Leoni la stele è solo apparentemente incomprensibile» diceva il giornalista, di nuovo in primo piano, «Perché mescola più conoscenze, in un linguaggio tecnico dallo strano formalismo. Professore, lei dice che sembrano esservi contenuti i principi della nostra scienza, una premessa implicita cui fa seguito una serie di nozioni incongruenti, spesso oscure».

Di nuovo apparve Leoni, con la pipa in bocca e la piramide sullo sfondo.

«Sì, e ritengo questa una conferma dell'ipotesi di una tecnologia superiore tra le civiltà antiche, nonché d'una intellighenzia ristretta, una specie di élite».

«Una setta?».

«Può darsi... un élite che ne padroneggiava i segreti».

«Una casta magari» propose il giornalista, «maestri di templi sacri, in mezzo alla barbarie del tempo...».

L'archeologo tacque, responsabile dell'idea che aveva fatto storcere il naso ai colleghi di mezzo mondo: l'esistenza di un misterioso popolo che aveva fatto perdere le proprie tracce dal fiume della storia, custode di un immenso patrimonio culturale e dominatore del passato remoto.

L'intervista finì, mentre l'obbiettivo della telecamera inquadrava nuovamente il particolare che aveva scioccato Daniele.

Si trattava di un oggetto da anni in camera sua, abbandonato.



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