Adottato

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In preda all'euforia, tornò in camera sua e lo cercò affannosamente. Il padre era agghiacciato.

«L'hai riconosciuto?» gli chiese, sporgendosi dalla poltrona.

Daniele si bloccò. Suo padre gli rivolgeva raramente la parola.

«Si» rispose e si voltò verso il salotto.

L'uomo aveva un'espressione angosciata.

«Allora... debbo dirti cos'è».

Daniele era pietrificato. Fin dall'inizio del servizio aveva provato un senso di irrealtà.

«C... che vuoi dire?» chiese.

L'uomo aggrottò la fronte.

«Ci sono cose... che non capisco. Il mio tempo di custodia...» disse e si interruppe.

Daniele provò l'orrore dell'estraneità, d'una situazione che non lo riguardava.

«Questo tempo» riprese il padre, «forse non l'ho impiegato bene... perdonami».

Risucchiato dentro, ebbe la folle vertigine che fosse tutto reale.

«C... cosa vuol dire?» domandò, tremando.

«Non ti ho mai detto... tutta la verità» rispose l'uomo e si soffiò il naso, «Vieni, siediti».

Daniele rientrò in salotto e si sedette sulla sedia appoggiata al muro, rigido.

«Non so cosa mi accadrà dopo... forse quello che è già successo a tua madre» disse il padre e tacque, vinto dai ricordi.

Daniele credette di sprofondare in un incubo.

«T'abbiamo adottato» disse l'uomo, fissandolo.

Lo zoom dell'esistenza, che portava in primo piano uno sfondo antico, lo fece sussultare.

«Cosa?» chiese, la voce fioca.

«Significa... che non siamo i tuoi veri genitori».

Chiuse gli occhi e la conferma irruppe come un maremoto tra i pensieri, ricomponendo pezzi e particolari senza significato che divenivano strutture portanti d'un nuovo ordine.

L'uomo iniziò a narrare.


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