Capitolo 5: Alive

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Dicono che l'ultimo secondo della vita sia il più importante, il più carico di significato: per chi se ne va dolcemente è il momento in cui le emozioni di tutta un'esistenza ti travolgono e ti fanno pensare ed eccomi qui; per chi invece è strappato inaspettatamente al filo che lo lega al respiro è l'attimo del panico, della consapevolezza, di forti pensieri ed emozioni accartocciate in un'unica espressione.
Io invece, nell'ultimo secondo di quel breve lasso di tempo di panico, non penso ad altro che a me stessa.
Non penso proprio a niente di significativo.
Forse perché non devo morire. Forse perché questo non è il mio ultimo secondo.
Pochi istanti prima che la macchina possa travolgermi vengo scaraventata lateralmente da una forte spinta. Sento il calore e la presenza di un corpo aderire al mio e rotolare insieme a me sull'asfalto, attutendo di molto la caduta.
Mentre cado sorpresa accanto al ciglio della strada sento un forte schianto, urla e rumore di vetro infranto. Ma tutto sembra lontano anni luce, è come se fossi in una bolla ovattata.
Una volta fermata la rotolata, sento la presenza del corpo di prima sparire, il calore estraneo allontanarsi. Risucchio l'aria — come fossi stata in apnea per minuti — e alzo lentamente le mani graffiate dall'asfalto, guardando verso l'alto, visibilmente scossa: un'ombra indistinta si sta allontanando sul marciapiede.
Lo sguardo offuscato si fa lentamente più nitido e tutto il panico per l'accaduto mi piomba addosso in un'unica grande ondata, insieme al dolore di una caviglia storta e ai graffi delle mani che bruciano.
Ma so che sarebbe potuta andare peggio, molto peggio.
Le mie labbra iniziano a tremare, mentre la gente si avvicina correndo verso di me. Una forte ondata di nausea mi porta a credere che avrei vomitato.
Invece non faccio nulla: non vomito, non mi alzo, non ascolto le voci. Respiro pesantemente e basta, sotto shock.
Delle mani forti mi afferrano le braccia e mi rimettono in piedi. Lentamente prendo considerazione del mio corpo, la bolla di isolamento scoppia e i rumori assordanti delle sirene e delle persone mi giungono alle orecchie.
"Signorina?" Un uomo mi sta dando dei piccoli schiaffi sulla spalla. Lo guardo.
"Sente male da qualche parte?" Mi chiede, mentre una donna in lontananza urla "Sono un medico! Lasciatemi passare!"
Ignoro la domanda dell'uomo accanto a me e mi giro verso l'auto quasi artefice della mia morte, che si è schiantata addosso a un grande albero sul ciglio della strada. Porto una mano alla bocca, accorgendomi che una lacrima sta scendendo sulla mia guancia.
"Qual è il suo nome?" Mi chiede una donna, cercando di attirare la mia attenzione.
Non bado neanche a lei, ma penso continuamente a quei cinque secondi di panico che sono impressi a fuoco nella mia testa.
Mi faccio largo tra la gente che cerca di parlarmi, avvicinandomi alla macchina distrutta. Una donna si sta infilando tra i sedili e la ferraglia accartocciata come carta e mi impedisce una vista che sicuramente non avrei avuto piacere di vedere.
Osservo l'ambulanza arrivare, mentre lo shock iniziale inizia a scivolare via del tutto dalla mia pelle.
"Distraetela, stanno arrivando i medici." Dice qualcuno alle mie spalle, come se fossi una marionetta indifesa nelle loro mani.
Ho diciotto anni. E non ho assolutamente bisogno di un'ambulanza.
Cammino velocemente lontano dall'accaduto, ignorando tutto e tutti, volendo semplicemente tornare a casa, al sicuro. Sento qualcuno chiamarmi, ma faccio finta di niente.
Continuo a riflettere su chi mi possa aver salvato, ma soprattutto sul perché se ne sia andato subito.
Le sirene si sono bloccate, le voci della gente sono sempre più lontane. In pochi minuti arrivo sotto casa: zoppico, ma la testa è ormai completamente lucida e consapevole.
Quando entro cerco di essere il più silenziosa possibile: non voglio assolutamente che mio padre mi veda in questa condizione. Inizierebbe a dare di matto.
Corro in camera mia, e poi in bagno, tranquillizzandomi sentendolo russare profondamente dalla stanza accanto.
Mi spoglio completamente ed entro in doccia, aprendo l'acqua bollente e scivolandoci sotto. Lentamente i muscoli tesi si sciolgono del tutto, lasciandomi la sensazione di essere di gelatina, senza ossa. Resto sotto l'acqua a lungo, riflettendo e passandomi continuamente le mani graffiate sui capelli e sul corpo, come se potessi lavare via il recente accaduto dalla pelle.
Quando esco, il vapore si è condensato sullo specchio, impedendomi di vedermi bene: con una manica dell'accappatoio lo lucido e osservo la mia figura immobile. Il mio sguardo scende dal viso alle spalle e poi sotto la clavicola sinistra, sopra io cuore: fin dalla mia nascita in quel punto porto una piccola voglia a forma di stella, identica a quella di mia madre. Ho sempre adorato avere quel piccolo segno proprio uguale al suo. Da bambina mi divertivo a ragionare su cosa ne avrebbero potuto creare l'esistenza; a volte lei mi raccontava che le piaceva così tanto il cioccolato che un pezzettino di esso si era impossessato del suo cuore e si era stampato lì accanto.
Osservando la piccola voglia ora, noto con stupore che sembra scurita: dal colore che ha sempre avuto di cioccolato al latte, sta assumendo quello più scuro del cioccolato fondente, quasi nero. Aggrotto le sopracciglia e distolgo lo sguardo, uscendo dal bagno per andare a dormire.
La cena con Ethan, Emily, Celine e Zac sembra lontana anni luce dal momento in cui finalmente mi infilo sotto le coperte, distrutta emotivamente e fisicamente.
Sto ragionando se raccontare o no a mio padre dell'incidente, quando inevitabilmente il sonno prende la meglio e mi trascina con sé.
La mia notte è tormentata da incidenti di auto e da sangue per le strade. Sogno anche un lacerante dolore al petto, che mi costringe a strapparmi la camicia da notte per guardarne la causa: la voglia a forma di stella sta sanguinando e il liquido denso scivolando sulla mia pelle. Le mie mani tremanti toccano il sangue, sporcandosi.
Mi sveglio sudata e tremante, un'ora prima del suono della sveglia. Sto ferma per un tempo indeterminato ad osservare i numeri dei minuti cambiare, dopodiché mi alzo e seppur disperatamente controvoglia, mi costringo a prepararmi per la giornata.

"Allora?" Mi chiede Ethan, mentre sorseggio stanchissima il mio caffè bollente. "Non mi chiedi neppure qual è il mio regalo di compleanno?"
"Mi hai fatto un regalo?" Alzo le sopracciglia sorpresa e gli sorrido dalla tazza.
"Andiamo Grace, per chi mi hai preso?" Mi domanda e mi squadra lentamente.
"Non sembri molto in forma." Aggiunge quando nota la mia mancanza di battute.
"Ho delle occhiaie da fare paura, lo so." Gli rispondo stancamente, appoggiando la tazza sul tavolino.
Osservo il mio outfit decisamente sciattone per la giornata — jeans larghi e felpa di due taglie più grande — e mi strofino a lungo gli occhi struccati.
"Sono indecente." Ammetto alzando le spalle. "Non avevo proprio la forza di impegnarmi per uscire carina, oggi." Gli spiego e mi sbatto la mano sulla fronte.
"Sei sempre carina." Mi sorride e io assumo una espressione disperata.
"Grace..." Mi dice preoccupato "Cosa ti è successo?"
Scuoto la testa "Niente, sono solo stanca."
"Ok, quindi credi che io non abbia notato nulla di strano fin dal primo momento che ti ho vista?" Incrocia le braccia. "Ti ripeto: per chi mi hai preso?"
"Ethan..." Inizio, poi sbuffo. "Oddio niente, è che ieri sera sono quasi stata investita." Butto fuori d'un fiato e aspetto la sua reazione.
"Che cosa?!" Sbraita lui. Non oso pensare cosa sarebbe successo se avesse avuto il caffè in bocca. Probabilmente me lo avrebbe sputato in faccia.
"Hai sentito." Rispondo guardando oltre. "Ma sono qui ora, tutto a posto."
"Come...? Come è successo e perché?" Mi chiede confuso.
"Stavo attraversando la strada e ho notato una macchina che sbandava verso di me. Per fortuna me ne sono accorta e sono corsa sul marciapiede in tempo." Dico velocemente, senza pensarci seriamente. "Sono solo caduta nella foga di scappare, ma nie—" blocco io stessa le mie parole, confusa da ciò che ho appena detto.
"Aspetta..." Sussurro "Non è andata così."
"Grace, sicura di stare bene?" Mi chiede allarmato.
"Qualcuno mi ha spinto." Lo ignoro, mentre tutti i tasselli tornano al posto giusto. "Qualcuno mi ha spinto via, altrimenti sarei rimasta uccisa."
Ethan mi osserva sconvolto. "E chi è stato?"
"Non ne ho idea." Rispondo.
"Avrei dovuto accompagnarti." Sbuffa lui. Liquido le sue preoccupazioni con un gesto della mano, riprendendo a bere il caffè, persa nei pensieri confusi che si mescolano nella mia testa. Eppure la rotolata la ricordo chiaramente: il calore di un corpo contro il mio, l'ombra che si allontana.
Scuoto la testa, schiaffeggiandomi le guance.
"Allora, che tipo di regalo è?"

Author's note
Ehi persone! Anche il quinto capitolo è concluso!
Se la storia vi piace sarei molto contenta se me lo faceste notare, a modo vostro con un commento, un consiglio ai vostri amici o qualsiasi cosa vi faccia piacere.
Consiglio di non dimenticare alcune piccole situazioni contenute in questo capitolo, sono fondamentali!
Non faccio alcun tipo di spoiler sull'immagine (non so ancora se va bene metterla o no, ho paura che si capisca qualcosa) in ogni caso, ricordate che non tutto è quel che sembra e che se pensate qualcosa sia scontato, ce la metterò tutta per sorprendervi. (Io cerco eh, non sono mica la Clare)
Quindi cicci, al prossimo capitolo. (Non perdetevi il regalo di Ethaaaaan, consiglio)
Bacioni -Bea

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