Capitolo 69: ready to find out?

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Canzoni per il capitolo:
Day One - Hans Zimmer
Hurts Like Hell - Fleurie

Sto cercando di accendere il fornello sotto il pentolino del the, canticchiando soprappensiero la melodia di una nuova canzone che sta passando alla radio, quando il suono del campanello giunge alle mie orecchie.
Pongo fine ai miei tentativi di dare vita al gas, ed esco dalla cucina con un sorriso divertito, sicura di trovare dall'altro lato della porta un Ethan scocciato che afferma di aver dimenticato qualcosa.
"Non resisti neanche cinque minuti senza di me?" Domando ironica, aprendo la porta di casa, ma con mia grande sorpresa e incredibile imbarazzo, mi ritrovo faccia a faccia con Mr. Dorian, il portinaio del palazzo.
"Oh." dico semplicemente, guardandolo confusa mentre appoggia uno scatolone sullo zerbino, sicura di avere le guance in fiamme.
Non c'è modo che non abbia sentito ciò che ho detto.
"Mi scusi Mr. Dorian, mi aspettavo di incontrare un'altra persona."
In effetti Ethan era partito solo una decina di minuti fa: non sarebbe stata la prima volta se si fosse presentato alla porta, sudato e di fretta, affermando che aveva dimenticato il caricatore del cellulare o qualsiasi altra sciocchezza.
"Mi sono preso la libertà di portarle questo pacco fino al suo appartamento. È piuttosto pesante." Mi risponde, ignorando le mie scuse e il mio imbarazzo, con una cordialità insolita. "Lo mandano da Bradford, specificatamente per lei."
Deglutisco, sorpresa e insospettita dalla sua provenienza. "Per me?"
Lui alza le spalle, guardandomi da dietro i suoi occhiali dalla montatura strampalata.  "Così è indicato a caratteri cubitali sul pacco. E sul biglietto." Afferma con tono ovvio, indicandomi il lato della scatola dov'è scritto il mio indirizzo e il mio nome. "A meno che lei non sia Grace Night, residente a 22 Breek Street, Londra."
Mi schiarisco la voce, ancora più imbarazzata.
"Bene. Grazie per avermelo portato, buon pomeriggio Mr. Dorian." Cerco di dire gentilmente, mentre spingo il pacco in ingresso.
Lo guardo di sfuggita abbassare il capo in un ridicolo inchino.
Che personaggio particolare.
Faccio un sorriso forzato, guardandolo dileguarsi, poi entro in casa e chiudo la porta.

Lo apro? Non lo apro?
Sono almeno dieci minuti che me sto immobile, seduta sul letto, a scrutare quello scatolone di cui ho tanta curiosità quanta paura.
Le forbici sono là, sulla scrivania, ma l'idea di tornare in cucina a preparare il the e dimenticarmi di questa scatola è piuttosto allettante.
Ho paura. Paura di non essere abbastanza emotivamente stabile. Perché lo so, dentro a quel pacco c'è qualcosa che mi manda mia madre. Lo so grazie alla calligrafia con cui sono stati riportati l'indirizzo e il mio nome: corsivo, molto leggibile e leggermente inclinata verso destra.
È indiscutibilmente la sua.
Sospiro, portando una ciocca ribelle dietro all'orecchio. Poi, senza che possa evitarlo, la mia mente viaggia improvvisamente indietro nel tempo. Indietro ad una grigia giornata di Dicembre, un giorno che faceva parte della seconda settimana di allenamento all'Hous.
"E se sbaglio?" Chiedo titubante, intimorita dai buoni quattro metri che mi separano dal pavimento, rivestito solo da un sottile materasso. "Cosa succede se sbaglio ad atterrare, Devin?"
"Sai cosa disse Elbert Hubbard?" Mi chiede, ignorando completamente - ovviamente - la mia domanda. È seduto in bilico su una trave del soffitto, ancora più in alto di me, e solo vederlo in quella posizione, a quell'altezza, fa sì che il mio corpo sia pervaso da brividi.
"Cosa?" Domando piano, come se parlare forte possa contribuire in qualche modo a farmi precipitare a terra.
Non so neanche chi sia, questo Elbert Hubbard.
"Che il più grande sbaglio nella vita è quello di avere sempre paura di sbagliare." Mi dice deciso, dopo qualche secondo di silenzio. "Perciò smetti di avere paura e salta. So che sai come farlo."
Qualcosa nell'aria si muove, e ci metto qualche secondo a realizzare che il ragazzo si è appena lanciato ed è atterrato elegantemente sul pavimento. Urlo, per poi portami una mano alla bocca e reggermi meglio alla piccola piattaforma dove sono seduta.
Devin ridacchia, alzandosi in piedi e guardando in alto, verso di me.
"Stai aspettando che le travi marciscano?" Urla nella mia direzione, con una mano distrattamente appoggiata sul petto. "Perché in quel caso devo informarti che dovresti aspettare per un tempo piuttosto lungo. L'Hous è stata costruita in modo impeccabile e con materiali eccellenti, e poi ci sono sempre lavori di mantenimento in corso."
Alzo gli occhi al cielo, sporgendomi un po' di più e prendendo una grande boccata d'aria. Guardo il pavimento, lontano e minaccioso, perfettamente consapevole di essere a rischio di spaccarmi le gambe o le braccia, e, nel caso peggiore, anche l'osso del collo.
Inspiegabilmente, la consapevolezza del pericolo mi motiva. Così, con in mente la brutta visione delle mie braccia contorte e dalle ossa in frantumi, mi lascio finalmente andare nel vuoto. Atterro sul sottile materasso in pochi secondi, attutendo il balzo con le ginocchia flesse e le mani.
Sorrido incredula. "Ce l'ho fatta!" Esclamo barcollando "Devin, sono ancora viva!"
"Purtroppo." Afferma con tono ironico, dopo essersi esibito in un piccolo applauso sfottente.
Mi giro verso il ragazzo, per poi alzare gli occhi al cielo.
"Sembravi più simile ad uno struzzo impazzito che una leggiadra donna angelica, ma..."
"Sei crudele..." borbotto, interrompendolo e corrucciandomi.
"Il terrore mi ha reso crudele." Afferma con tono teatrale, facendomi immediatamente tornare il sorriso.
"Citi 'Cime Tempestose'?" Gli domando elettrizzata. "Amo quel libro."
Devin mi rivolge un'occhiata incuriosita: sicuramente non si aspettava che riconoscessi la sua citazione. Nei suoi occhi leggo qualcosa che non avevo mai notato fino ad ora e, per un secondo, rimango incantata. Ma poi ricomincia a parlare, ignorando la mia domanda e tornando al giudizio sul mio atterraggio.
"A parte le spalle tese e lo sguardo nella direzione sbagliata, è stato un salto discreto..."
Sospiro, tornata al presente, poi impreco sottovoce, alzandomi dal letto per afferrare le forbici. Le uso per tagliare in fretta lo spesso scotch, con le mani che quasi tremano dalla curiosità e timore, mentre il lettore CD inizia a immettere nella stanza le prime note di "Not About Angels" di Birdy. Una volta che le due ante di cartone sono libere di aprirsi, mi blocco, osservando un piccolo cartoncino azzurro adagiato sopra lo strato di carta da imballaggio.
Cara Grace,
Gandhi una volta disse che il perdono è la qualità del coraggioso, non del codardo. Tu, piccola mia, sei la ragazza più coraggiosa che io abbia mai conosciuto. Ed egoisticamente, ma con il cuore che scoppia di rimorso, confido che tu mi perdonerai, un giorno.
E forse conoscermi meglio ti aiuterà a farlo.
Ti voglio tutto il bene del mondo.
Mamma
Deglutisco, rigirandomi il cartoncino tra le dita, serrando le labbra l'una contro l'altra nel tentativo di non piangere. Poi lo adagio per terra, accanto alle mie gambe incrociate, ed inizio a portare alla luce ciò che la scatola contiene veramente.
Primo tra tutti, le mie mani afferrano un orologio da polso dal cinturino di cuoio nero e sottile, rovinato dai tanti anni in cui è stato utilizzato. Il quadrante d'argento incornicia le lancette, che si stanno ancora muovendo.
Il suo orologio.
Allungando il braccio, lo appoggio delicatamente sul letto, per poi riportare l'attenzione alla scatola, che, come scopro nei successivi minuti, è piena degli effetti personali di mia madre. Una vecchia collana, quella camicia azzurra che indossava sempre, il suo smalto preferito, perfino il libro di cucina da cui prendeva ogni ricetta, pieno di fogli svolazzanti e appunti. Persa la concezione del tempo, continuo a portare alla luce nuovi oggetti, lasciando che lacrime solitarie scendano occasionalmente sulle mie guance. Così trovo i suoi occhiali da sole, il binocolo che usavamo durante le passeggiate in montagna, quel rossetto consumato che metteva ad ogni occasione importante, degli orecchini pendenti, svariate buste piene di foto stampate, e anche un'inutile copia di un giornale a cui era abbonata.
Tutto profuma di lei, ricordandomi il suo viso naturale, spesso stanco, ma quasi sempre sorridente. E la malinconia è talmente preponderante, da costringermi a portare per qualche minuto lo sguardo altrove.
Fa male. Ricordare fa tanto male.
All'inizio volevo solo che finisse. Volevo solo pensare per più di cinque minuti a qualcosa di positivo, allegro, normale. Volevo che qualcuno mi ricordasse che non ero solo il dolore che stavo provando. Per questo l'aiuto di Ethan non è stato solo prezioso, ma indispensabile. Mi ha sorretta, rispettata e incoraggiata durante i giorni più bui della mia vita, perfino più bui di quelli seguenti all'abbandono di mio padre, avvenuto quasi sei anni fa.
Questa mattina, al mio risveglio, ero convinta di essere pronta a lasciare andare Ethan di nuovo: dopotutto non stava partendo per l'angolo più remoto del mondo, ma per una città a qualche ora di distanza da me. Solo ora mi accorgo di essermi illusa. Non sono pronta — e non lo sarò per un po' — ai giorni vuoti del suo sorriso e pieni di quotidianità che mi stanno aspettando. Certo, avrò la compagnia dei miei amici: Zac, Emily, Celine, e i miei compagni di corsi. Ma come potrò riempire un'assenza come quella lasciata da Ethan ora che un'altra, importante parte di me mi è stata strappata dall'anima? Come poter resistere a delle banali lezioni dopo aver scoperto che c'erano persone in grado di vivere centinaia di anni? Come poter bere un caffè senza ricordare di essere speciale?
Ho paura della quotidianità che mi sta aspettando. Di non essere capace di fare finta di niente. Di non pensare a Devin. Alle sue dita callose, ma così delicate quando a contatto con il mio volto. A quello sguardo magnetico, di sfida, raramente esposto e facilmente leggibile. Ho paura di vivere senza la convinzione di avere ancora una casa a cui ritornare, a Bradford. Un letto in cui sentirmi davvero a casa. Una mamma da abbracciare. E non credo che il mio cuore potrà mai essere instabile tanto quanto ora, scosso da pianti, incomprensioni, ingiustizie, dolori.
Nonostante i miei pensieri si susseguano come un mare in tempesta, decido di respirare lentamente, rilassando le spalle e concentrandomi sulle tende che incorniciano la finestra della mia camera. Ondeggiano lentamente, con movimenti quasi impercettibili, spinte dalla aria fredda che si fa spazio attraverso l'apertura delle vetrate.
Allungo le maniche del maglione fino a coprire le dita delle mani, rifugiandomi nel tepore della lana. Poi sospiro, portando lo sguardo a tutto ciò che ho estratto dallo scatolone, ora riverso sul pavimento.
"...confido che tu mi perdonerai, un giorno. E forse conoscermi meglio ti aiuterà a farlo." Dice il bigliettino.
Non posso fare a meno di domandarmi come trovare qualche sua cianfrusaglia possa aiutarmi a capirla e conoscerla meglio. Ho bisogno di comprendere il suo gesto, la sua egoistica scelta di tenermi all'oscuro della sua malattia, non di ritrovare pezzi di ciò che le apparteneva e piangerci sopra.
Sbuffo, sbattendo gli occhi lucidi. Ed è quando porto nuovamente lo sguardo al fondo della scatola, che mi accorgo di aver dimenticato qualcosa. Ha tutta l'aria di essere un diario, uno di quelli rilegati in pelle dall'apparenza vecchia e consumata. Allungo le mani verso di esso e sfioro la superficie liscia, con uno strano presentimento nel petto.
Non mi ci vuole tanto per decidere di aprirlo, e quando lo faccio, resto immobile, stupita di fronte ad una pagina ingiallita, con una macchia di caffè in un angolo e una lunga lista della spesa scritta a matita. Il mio sguardo cade sulla parola omogenizzati, facendomi intuire che sia una lista risalente a parecchi anni fa.
Sorrido leggermente, voltando pagina.
Lo schizzo a matita di un volto familiare mi sorride, facendomi stringere il cuore. È mio padre, rappresentato piuttosto realisticamente, seppur a tratti grossolani, seduto su una sdraio, al mare. Nell'angolo in basso a destra c'è la firma della mamma, insieme alla data. 24 Giugno 2005. Ho sempre saputo di non aver ereditato il talento che aveva mia madre nel disegnare – anzi, mi sono sempre reputata piuttosto negata – ma speravo che un giorno, in un futuro ormai inesistente, mi avrebbe insegnato qualcosa, trasmettendomi almeno una piccola parte della sua passione. Avrei potuto trovare il tempo prima, chiederle di mostrarmi il quaderno degli schizzi, le tele che si dilettava a dipingere da giovane e che sapeva giacevano in cantina da anni. Avrei potuto guardarla disegnare, imparare il modo con cui teneva la matita, cercare di imitarla e ridere insieme di ciò che ne sarebbe risultato. Non l'ho mai fatto. Non ho mai pensato di non potermi permettere di rimandare questi momenti di intimità con mia madre. Non ho mai avuto la consapevolezza che mi spettava sulla sua situazione. Non l'ho mai guardata cucinare pensando che potrebbe essere una delle ultime volte che glielo vedevo fare.
Volto nuovamente pagina, ritrovandomi a passare lo sguardo su quella che ha tutta l'aria di essere una marea di appunti. Sbiaditi, poco chiari e pieni di frecce e sottolineature, ma guardati nell'insieme hanno un'aria ordinata e quasi affascinante. Non c'è alcuna data, ma il titolo, insieme a qualche parola, mi aiuta ad intuire l'argomento di tutta questa dedizione.
Dott.ssa. Todbay - Come trovare il tempo di fare tutto
Sorrido di nuovo, malinconica, ricordando quanto le piacesse prendere parte a tutte le conferenze possibili, organizzate dalla mia scuola o dalla Chiesa a cui era solita andare. L'avevo accompagnata, qualche volta, con il solo risultato di cadere in un profondo e scomodo sonno sulle poltroncine degli auditorium. Il torcicollo che mi veniva sempre a trovare la mattina seguente era una chiara dimostrazione dell'esistenza del karma. Ma anche del fatto che le poltroncine degli auditorium non erano esattamente adatte ad un riposino a cinque stelle.
Le tre pagine seguenti del diario riportano perlopiù citazioni motivazionali, probabilmente copiate da un libro che stava leggendo in quel periodo. Dopo di esse, e qualche facciata bianca di cui non capisco il motivo, mi ritrovo di fronte ad una pagina che ha qualcosa di diverso da tutte le altre. Leggo le prime righe, poi mi blocco. Ciò che c'è scritto sembra in tutto e per tutto un brano di un diario. Non posso fare a meno di dedurre di essere sul punto di scoprire tante cose.

A/N
Come potermi scusare per un mese e mezzo di assenza? (Forse con 10 capitoli in 10 giorni, ma purtroppo non sono una supereroina🙃)
Forse non posso proprio scusarmi, ma giustificarmi! Per chi non lo sapesse, perché ve ne avevo parlato nell'Author's Note del capitolo precedente, sono stata in Australia per qualche mess per i miei studi. E, che dire, è stata un'esperienza meravigliosa, ma che, per fortuna per voi, si è conclusa. Quindi sí, vi scrivo dall'Italia, eppure non è quella la vera ragione per cui ho aggiornato molto poco. A volte capita che le idee si sovrappongano e creino un pasticcio tremendo. Ho iniziato 3 capitoli diversi per questo capitolo 69. Niente mi soddisfava abbastanza. E la voglia cala ogni volta che vedi di non riuscire ad andare avanti.
In ogni caso, so che questo capitolo non è perfetto, e neppure come l'avrei voluto. Ma è ora di andare avanti, non si può più aspettare. E ne sono abbastanza soddisfatta. :)

Ma ciancio alle bande! (o è bando alle ciance?😉)
Non vi annoierò oltre con spiegazioni poco utili.
Sono di nuovo attiva, e ho in mente tanti progetti per questa storia! Non pensate mai che la abbia abbandonata! Sarò lenta, ma sono anni ormai che mi ci dedico, non ho intenzione di mollare!

Un bacione a tutti quelli che sono ancora qua, e ovviamente benvenuti a tutti i nuovi lettori!
Ci tengo a comunicarvi che qualcosa di davvero PAZZESCO sta per accadere. Nel frattempo godetevi un paio di capitoli di quotidianità, prima che la tempesta ritorni.

Inoltre, ho notato di essere davvero vicinissima ai 10 mila followers. 🙆🏼
Una parola: M E R A V I G L I A T A. (Quasi quanto da questa foto del nostro Devin!!👇🏼)

 (Quasi quanto da questa foto del nostro Devin!!👇🏼)

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P.s. Apprezzate le canzoni che ho inserito e ascoltatele!! Soprattutto la seconda. (La prima è musica da sottofondo).

A presto!
XX
-Bea

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