Colpo di Fulmine

238 17 19
                                    

Le nubi quel giorno si rincorrevano molto veloci. Come biciclette impazzite. Il vento del nord, freddo, attraverso la finestra semiaperta, mi scompigliò i capelli e allo stesso tempo scacciò via qualsiasi mio pensiero e mi riportò coi piedi per terra. Mi capitava spesso, di perdermi nell'immensità del cielo, in cristalli di vita quotidiana, in fiori e petali di tempo, nelle lacrime di un passato remoto, nel caldo respiro di un attimo e di sognare ad occhi aperti.
Fuori dalla finestra del college una fitta pioggia si abbatteva sui platani del campus e una spessa coltre di cumulonembi oscurava il cielo. Ogni giorno era così. Il mese di novembre era il peggiore.
La professoressa Hinkle, di scienze della Terra, aveva una voce alquanto squillante: - Le nubi si formano in seguito al raffreddamento dell'aria, definito "raffreddamento adiabatico", quando la pressione atmosferica diminuisce, infatti, l'aria si espande, avviene la condensazione e nascono così le nuvole. - si sistemò il foulard di seta rossa legato al collo, perfettamente intonato con le Louboutin che la alzavano di almeno dodici centimetri. - Le possiamo classificare in base alla loro forma e alla quota su cui si sviluppano, sapete dirmi di che tipo sono queste? - domandò indicando fuori dalla finestra il manto grigiastro di nuvole che ricopriva tutto il college.
Nessuno rispose.
- Sono dei cumulonembi, tipici dei temporali, che fanno parte della categoria delle nubi a sviluppo verticale, che hanno la base alle quote inferiori, ma si estendono fino a quote medie o alte. Sono ammassi globulari la cui forma ricorda quella di un cavolfiore. - spiegai.
Passarono cinque secondi interminabili. Di un silenzio assordante.
- Molto bene signorina Promwark, la classe dovrebbe prendere esempio da lei. - terminò la Hinkle.
La campanella suonò e mentre tutti uscivano dall'aula mi domandai perché doveva sempre finire così. Io, che restavo sola. Questa era la fine della storia. Sempre. Alla fine, dopo che tutti correvano fuori dalla classe a vivere le loro splendide vite, a ridere insieme, a trascorrere momenti importanti e da ricordare, ogni giorno, i professori mi domandavano perché rimanevo sempre da sola. E io non sapevo cosa rispondere. Ogni giorno era così. Me ne stavo zitta, immaginavo come sarebbe stato fuggire  lontano da questo mondo freddo, fatto di falsità, pregiudizi e una voglia costante di essere qualcun'altro, altrove, nessuno o da nessuna parte; rispondevo alle domande degli insegnati, avevo tutte A e poi tornavo a casa a studiare.
Questa era la mia vita.
Tutte le ragazze avevano qualcuno, qualcuno su cui contare, una spalla su cui piangere, una famiglia, un fidanzato, una migliore amica, una sorella o un fratello, una nonna o semplicemente qualcuno. Io no. Me ne stavo per conto mio, badavo a me stessa da sola.
Gli anni migliori della nostra vita, dicevano.
No, per me non era mai stato così.

L' unica cosa che mi restava di mio padre era il suo cognome, Promwark.
Di mia madre mi rimanevano solo alcune foto appiccicate al frigo, una collanina d'oro che apparteneva a sua mamma Amy e il suo nome inciso sulla sua lapide. Niente di più.
Non avevo mai saputo granché del mio passato. Mia mamma mi aveva sempre detto che mio padre era fuggito perché non era pronto a fare il papà e che non ne aveva più saputo niente. Lei mi aveva cresciuta con le sue uniche forze, finché non le vennero a mancare alcuni anni fa, prima che incominciassi il college. Aveva messo da parte un gruzzoletto di soldi per i mie studi. Così andò. E rimasi sola. Per un po' non riuscii ad accettarlo, sentivo la mancanza di un punto di riferimento o di qualcuno a cui appoggiarmi. Poi, imparai ad accettarlo, col tempo. Promisi che non mi sarei fidata di nessuno, mai. Pian piano tutti finiscono con l'abbandonarti. Tutti mettono al primo posto se stessi. E tu, tu devi pensare a te stesso, non c'è altro da fare. Promisi che non mi sarei mai affezionata a nessuno, perché alla fine l'amore è solo sofferenza. Ero sola e stanca di guardarmi indietro. Indietro non c'era nulla, solo le ceneri di mia madre e la polvere sui mobili del nostro vecchio appartamento, alcune foto ingiallite dal tempo e su di esse sorrisi cancellati dalla memoria.
Era tutto finito. Bisognava solo dimenticare.

Sistemai i libri di scienze nello zaino e uscii dalla classe. L'infinito corridoio del college in muratura a vista dava l'accesso ad una serie infinita di aule, da cui sgorgava una miriade di studenti tutti indaffarati, carichi di libri e di fretta.
Imboccai una ripida scalinata sulla sinistra che mi condusse all'esterno, dove ormai pioveva a dirotto. Al di sotto del portico tutti si stavano mettendo al riparo e correvano nel senso opposto al mio, verso l'interno della scuola.
Ormai era l'ora di pranzo e come al solito stavo andando a prendere un gustosissimo Club Sandwich alla caffetteria del campus, dall'altro lato dell'immenso giardino del college. Ero senza ombrello e indossavo una semplice maglietta a maniche corte in tinta unita molto leggera, attraverso la quale sentii una folata di vento gelido salirmi lungo la schiena. Corsi attraverso l'enorme giardino dove sottili gocce di pioggia ferivano il cielo e forti tuoni echeggiavano qualche secondo dopo le apparizioni di abbaglianti lampi che cicatrizzavano il porpora delle nuvole. Il prato era diventato fangoso e le mie All Stars erano bagnate fradicie. Il giardino era vuoto, ero da sola in mezzo alla pioggia. Passai al di sotto di un enorme quercia dai rami rivolti verso le nuvole, quasi ad abbracciare il cielo. Quando un fragoroso boato, mi risuonò nel petto. Un'accecante luce. Poi, il buio.

Latte e CenereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora