Salvarsi a vicenda

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- Finalmente ti sei svegliato, non sopportavo più di sentirti russare! - scherzai, appena Tom aprì gli occhi.
Erano le 17.00 e presto avremmo sorvolato le coste del Portogallo.
- Ciao, June. - si stiracchiò, allungandosi verso di me per darmi un dolce bacio sulla guancia destra. - Hai dormito un po'?
- Sì. - risposi. - Ho telefonato Abby... volevo parlarle.
- Parlarle? Di cosa?
- Ho fatto un sogno, Tom. Un altro. Rincorrevo June in un campo di girasoli.
- Beh, sembra un sogno felice. - cercò di smorzare la tensione che c'era nella mia voce, prendendomi in giro. - Meglio di mostri e morti varie. Insomma, una campo di girasoli e...
- Smettila, Tom. - lo zittii con voce e fredda, per farlo tacere. - Non era un sogno felice. Lei... lei saltava in un buco e io la seguivo. Poi... diceva una cosa... una parola.
- Cosa? - mi incalzò.
- "Promessa".
- Promessa? Perché? - domandò. - Ti riferisci alla nostra?
- Credo... credo fosse anche quella con December.
- Avete fatto una promessa? Come... come è possibile?
- È una... metafora. La promessa che ci ritroveremo, sempre. Qualunque cosa accada. Forse, è più una promessa con me stessa. La promessa che non mi arrenderò mai, non la smetterò mai di cercare. Perché è la cosa giusta. E sono stanca di sbagliare.
- E perché dovrebbe essere così brutta come parola? Perché questa promessa dovrebbe essere così... drammatica? - non riusciva a capire.
- Perché mi ricorda le mie paure, Tom! - esplosi. - È il ricordo costante delle mie più grandi paure. La paura di non riuscire a trovarla. La paura di infrangere la mia promessa. La nostra promessa e quella che ho fatto a me stessa. La paura di perderti. La paura di restare sola, di ritornare sola. Come sono sempre stata. La paura di ricominciare da zero, da quel minuscolo e insignificante zero che ero in passato. La paura di abbandonare la mia nuova vita. La paura di abbandonare tutto quello in cui credo, quella che sono diventata. La paura di perdere il nostro amore.
- Non mi perderai mai, June. Ed è normale avere paura. La paura fa parte di noi, sempre. Ogni giorno. - sussurrò dolcemente, accarezzandomi con la mano destra il viso, posando le dita sulla mia guancia a intervalli regolari e tranquillizzandomi come solo lui sapeva fare. - Sei la persona più forte che io conosca, June. E la paura non ci abbandonerà mai, rimarrà sempre al nostro fianco, come un'ombra, per ricordarci chi siamo. È soprattutto la paura che ci rende più forti e coraggiosi. Che ci rende noi stessi. Senza la paura, non sarei io e tu non saresti tu.
Mi sentii improvvisamente meglio. La sua voce, leggera, delicata, placida, mi aveva trasportata immediatamente nel mondo reale mi aveva fatto pensare con razionalità.
- Grazie, Tom. Mi sento meglio. - gli sorrisi, alzando gli occhi verso di lui e ancorando il mio sguardo al suo, trovandovi, come ogni momento, difficile o meno, un porto sicuro.
Mi sentivo protetta, quando ero con lui. Mi sentivo immensamente serena e tutte le preoccupazioni scivolavano lentamente via, come l'acqua in un fiume. Era tutto più semplice e facile. Tutto più chiaro e limpido.
Un tempo, credevo che Tom fosse il vuoto, l'oblio, il mare in tempesta, il caos, l'ignoto.
Ora, avevo capito quanto mi sbagliassi.
Tom era la sicurezza, la limpidezza di ogni cosa, la luce chiara dei suoi occhi e la stretta delle sue mani salda nelle mie. Era la protezione, la certezza. La certezza che ci sarebbe sempre stato e che mi avrebbe salvata.
Sempre. Mi avrebbe sempre salvata.
Perché era questo, lo capii guardando quella nebbia, quel mondo nascosto nei suoi occhi grigi, che significava amare. Salvarsi a vicenda.

18.46.
- Tom, siamo quasi arrivati? - domandai per la milionesima volta.
- Ancora mezz'ora circa, June. Devi avere pazienza.
- Quindi, quando arriveremo là... - feci mentalmente il calcolo dei fusi orari. - Saranno sette ore avanti rispetto ai nostri orologi?
- Sì, sarà notte fonda.
- Il volo per Oslo a che ora parte?
- Alle 6.10. di domani. - rispose, controllando i biglietti e le prenotazioni. - Sarà meglio che ci prendiamo una camera in un hotel o B&B, magari vicino all'aeroporto, solo per dormire qualche ora... - propose.
- Sì, mi sembra la soluzione migliore.
Mi appoggiai al finestrino e osservai il cielo che si scuriva. Era il crepuscolo.
Stavamo sorvolando il nord della Francia.
- June, ripensi mai alla prima volta che ci siamo guardati negli occhi?
All'improvviso, come un viaggio nel tempo, qualcosa di irrazionale e impossibile, tornai lì. Tornai a quell'esatto istante in cui i miei occhi e i suoi si erano incontrati, connessi, ancorati gli uni agli altri. Rividi il disordine, il caos, il fumo della suo mente riflesso nelle sue iridi, la nebbia, la cenere, il grigio cielo di novembre, la pioggia e il mare in inverno. Tutto racchiuso in quegli specchi di ghiaccio. All'apparenza impenetrabili, eppure così chiari e semplici, ora, per me. Risentii quel piacevole calore che sbocciava nel petto, che contrastava il freddo della pioggia, l'umidità del terreno, il dolore al ginocchio e alle mani, la confusione nella mia testa. Tutto, con il suo sguardo, si era placato, si era annullato. Non valeva più niente. Restava solo lui.
Poi, mi ritrovai nuovamente sull'aereo diretto ad Amsterdam, di fianco a Tom.
- Sì, ci ho già ripensato. - mi ritornò alla mente la devastazione che provavo al Voyageurs National Park. In quel momento, riuscii ad aggrapparmi, a restare ancorata alla vita, alla realtà, solo grazie alla voce di Tom, che mi aveva tranquillizzata. Che non mi aveva lasciata andare neanche un istante. - Quando, al Voyageurs National Park, mi sentivo persa... senza più alcuna luce, avvolta dall'oscurità e dall'oblio... - al solo ricordo mi si inumidirono gli occhi. - I tuoi occhi, sì, i tuoi occhi mi hanno salvata. Come la prima volta che ci siamo incontrati. Vidi i tuoi occhi, come quel giorno piovoso di novembre, in cui mi avevi salvata dal fulmine. Il ricordo del tuo sguardo, della tua voce.
I suoi occhi luccicavano d'amore e di gioia. Mi si avvicinò lentamente, così che potei pian pian sentire il suo profumo e il suo respiro diminuire sempre di più la distanza che c'era fra di noi. Perché in realtà, tutto ciò che ci separava era solo aria. Aria, e basta. Avessimo potuto, avremmo respirato insieme tutta quell'aria che c'era fra di noi, ogni molecola d'ossigeno, per far sì che non rimanesse nulla in quello spazio. Avessimo potuto, avremmo occupato quello spazio con i nostri battiti e i nostri respiri. Avessimo potuto, di quell'intervallo fra di noi, avremmo rinunciato a ogni particella vitale, pur di farci rimanere, anche se solo per brevi attimi, più vicini. Avessimo potuto, avremmo aspirato tutta l'aria presente e avremmo visto ogni minuto della nostra esistenza scivolare via dalle nostre dita, per farvi rimanere solo pochi e intensi secondi di dolorosa apnea, che sarebbero sfociati in un bacio, capace, molto più dell'aria, di donare vita.

- È esattamente l'una e mezza di notte, qui ad Amsterdam, Tom. - affermai, controllando l'orologio dell'aeroporto.
Le luci erano tutte accese, fuori era buio pesto e nonostante l'ora il terminal era affollatissimo.
- Sì, però io sto morendo di fame. Sono ancora abituato al fuso orario degli Stati Uniti.
- Mangiamo qualcosa, poi cercheremo un posto per la notte. - conclusi.
Ci avviammo verso una zona dell'aeroporto con alcuni bar e ristoranti. Prendemmo due deliziosi panini con manzo alla salsa barbecue e cipolle da Starbucks e dopo ci dirigemmo al di fuori dell'aeroporto per cercare un posto per la notte.

La donna dietro il bancone ci scrutò con curiosità e stupore quando entrammo nella hall dell'albergo di fronte all'aeroporto. Aveva i capelli rossi, la pelle di un tenue e delicato rosa pallido costellato di lentiggini e occhi scuri. Sembrava piuttosto giovane, forse aveva l'età di Tom.
- Buonasera signori, avete prenotato? - domandò facendo rimbalzare lo sguardo da me a Tom, e ogni tanto soffermandosi qualche secondo in più su di lui.
- No, non abbiamo prenotato. - rispose Tom. - Avete una camera per due? Solo per questa notte. Controllò velocemente al computer e, appena ebbe trovato quello che cercava, annuì: - Sì, la 176. - ci porse la chiave della stanza, rivolgendo un dolce e cordiale sorriso a Tom.
Dopo aver pagato, salutammo la receptionist e prendemmo l'ascensore diretti al settimo piano.
- Hai notato quanto la ragazza ti fissasse? - gli chiesi, mentre l'ascensore raggiungeva il terzo piano.
- Mh... no. - mi sorrise distrattamente. - Non me ne ero neanche accorto.
- Come? Era così evidente. - insistetti, per tirargli fuori dalla bocca la risposta che volevo sentire, o che, per lo meno, mi aspettavo di sentirgli dire.
- June, stavo guardando te. Ho sempre guardato te, tutto il tempo. Non ti stacco mai gli occhi di dosso. Ho questa costante paura di perderti, che ti possa succedere qualcosa. Non l'hai ancora capito? - sbottò all'improvviso, prendendomi il viso fra le sue grandi e calde mani. - Per me non esiste nessun'altra. Quando guardo te, tutto attorno a me, tutto attorno a noi, scompare. E ci siamo solo noi. Solo tu e io. Non ho mai provato nulla di simile con nessuno, nemmeno con December. E tutti gli altri valgono zero, se penso al miliardo di stelle che si accendono quando sto con te.

La sveglia suonò alle 5.25 del mattino.
Fuori era ancora buio.
Lentamente, mi alzai dal letto controvoglia ed entrai in bagno per lavarmi. Mi sciacquai la faccia con l'acqua gelida e mi lavai i denti. Mi tolsi il pigiama, tirai fuori dalla valigia un paio di jeans e una felpa e me li infilai nella semioscurità della stanza. Tom dormiva ancora, non aveva sentito la sveglia. Mi avvicinai in punta di piedi a lui e gli accarezzai dolcemente la guancia, a intervalli regolari, osservando il suo volto mentre dormiva sereno, la sua pelle morbida, i suoi occhi chiusi sul mondo dei sogni, le sue ciglia lunghe e chiare, le sue labbra rosee e i suoi capelli sparsi sul cuscino. Era bellissimo. No, non era solo bello. Bellezza è qualcosa di freddo, distaccato, lontano. Quasi come neve. Bellezza è qualcosa che ti congela, che ti blocca nel tempo e nello spazio. No, lui era molto di più. Lui era il calore, quel calore che ti accoglie quando in inverno sei stato fuori tutto il giorno e rientri in casa. Lui era le stelle, quelle che brillano anche nelle notti di luna piena. Lui era la primavera, quella che fa sbocciare non solo i fiori, ma anche gli animi. Lui era il mare, che si infrange perennemente sugli scogli, senza arrendersi mai. Lui era come il concerto della tua band preferita, il primo bagno dell'estate, i regali sotto l'albero il giorno di Natale, una tazza di tè caldo con un buon libro in inverno, la discoteca fino alle cinque della mattina, i temporali ad agosto, il Club Sandwich dopo la mattinata di lezione, il profumo del bucato, la musica che ti fa cantare a squarciagola, l'alba in riva al mare, le stelle cadenti, il film che aspettavi da mesi al cinema, le montagne russe con la testa piena di voglia di gridare e la pancia carica di vuoto, il letto dopo una terribile giornata, le canzoni che ti strappano via lacrime, ricordi, sorrisi e momenti. Lui era tutto questo. Lui era emozione, luce, musica.
Lui era arte. E l'arte, è molto di più.
Aprì piano gli occhi.
E mi fissò.
- Ti amo. - sussurrai, per la prima volta, dopo tanto tempo.

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