La casa di zia Imogen era nella Eastside, al di là del Willamette, sulla Add Ave, una zona ricca di villette a schiera, parchi, alberi e giardini. Era molto vecchia e lasciata andare, dalle tegole del tetto rotte al cortile il cui prato era ormai cresciuto fino ad arrivare a cinquanta centimetri di altezza, dal legno della porta roso dai tarli alle finestre sporche, dagli alberi secchi e esili al recinto di un colore indecifrabile, che probabilmente un tempo doveva essere un violetto. Probabilmente l'avessimo vista vent'anni prima l'avremmo potuta ammirare in tutta la sua bellezza, i muri appena tinteggiati, l'erba falciata alla perfezione, gli infissi lucidati tanto da potercisi specchiare, il pomello della porta d'ingresso luccicante, gli alberi appena potati e le rose che sbocciavano dai vasi sporgenti dagli abbaini e dai davanzali. Ma non era più così. Zia Imogen era invecchiata, ma soprattutto cambiata, come la casa stessa.
Era quasi mezzanotte quando il taxi ci portò di fronte alla casa. Lei era in veranda, che dormiva. Avvolta in una calda coperta di lana, su una sedia a dondolo, una donna sulla cinquantina, dai capelli grigi e ricci che le circondavano il viso tondo e paffuto in un'argentea raggiera. Russava fortemente e nella stanza fredda il suo respiro si condensava in piccole nuvolette bianche che aleggiavano per pochi istanti nell'aria, per poi svanire subito. Era completamente buia la stanza, fatta eccezione per una lampada ad olio appoggiata su un tavolino di legno, di fianco alla sua sedia a dondolo, la cui tremula luce sembrava sul punto di spegnersi. Senza fare rumore, Abby si avvicinò alla zia, per rimboccarle la coperta e darle un leggero bacio sulla guancia rotonda e rossa come una mela. Ci fece segno di entrare in casa e di fare piano. Edward aprì la porta che cigolò sinistramente e ci invitò ad accomodarci. La stanza, che era sotterrata in un pesante buio pesto, sembrava essere la cucina. Abigail accese la luce e la mia ipotesi si dimostrò esatta. Era una cucina. Tutta in legno, con un pavimento in piastrelle gelide, il tavolo al centro rivestito da un sottile strato di polvere, ai muri era attaccata una carta da parati con un motivo a rombi marroni. Ed e Abby imboccarono la porta al fondo della stanza, che ci portò in una grande sala da pranzo, successivamente in numerose altre camere, un salotto, uno studio, una biblioteca, infiniti corridoi, scale, cantine, ripostigli, tre bagni e diverse camere da letto. Era una casa enorme, un labirinto. Ogni parete era rivestita da tipi differenti di carte da parati, a fiori, a righe, a pois, in tinta unita, con colori a pastello, acquerelli, disegni di animali marini e selvatici. Salimmo tre rampe di scale, per arrivare alle nostre camere. In un lungo corridoio, lastricato di vecchie piastrelle di un bianco sporco, erano rappresentati alle pareti volti di età, espressioni e caratteristiche differenti, tutti in fila, uno dopo l'altro. Mentre Edward reggeva una candela per illuminarci la strada, riuscii a notare che, sotto ogni viso, c'era un nome. Un nome scritto probabilmente a mano, con un inchiostro nero svolazzante e spesso esitante, come la calligrafia di dita tremanti e indecise. Lessi vari nomi.
Aldous Hughes.
Raymund Anderson.
Ferdinand Clark.
Charity Clark.
Horace Williams.
Lynwood Clark.
Luvinia Finnegan.
Luvinia Finnegan. Lo ripetei nella mente più volte.
Finnegan. Era il cognome di mia madre.
Luvinia Finnegan. Luvinia Finnegan.
Lo avevo già sentito. Ma dove?
Era un volto giovane, pelle e ossa, occhi neri e lucidi, capelli corvini ondulati e lunghi fino alle spalle. Mi ricordava lontanamente qualcuno, mi sembrava di aver già visto quel viso.
Mi incantai di fronte a quel dipinto sulla carta da parati per pochi minuti. Poi, proseguii a leggere gli altri nomi. Ogni nome corrispondeva ad un volto, un volto sconosciuto, un volto vecchio o giovane, un volto magro o grassottello, un volto felice o triste, un volto fra i tanti.
Barney Mills.
Magnolia Clark.
Rosemary Hughes.
Windsor Clark.
York Clark.
Sibyl Anderson.
Sunday Clark.
- June, questa è la tua camera. - Ed aprì la porta bianca scricchiolante di una camera dall'illuminazione soffusa e debole. - Se hai bisogno del bagno è in fondo al corridoio a sinistra.
- Va bene, grazie.
- Buonanotte, June. - mi disse Tom, avviandosi verso la stanza di fronte alla mia.
- 'Notte a tutti. - gli fece eco Abby, che stava entrando nella camera vicino al bagno.
- Buonanotte. - risposi.
Entrai nella stanza, rivolgendo a Ed un ultimo sorriso, prima di chiudere dietro di me la porta, che cigolò rumorosamente. Aveva un che di antico: il letto a baldacchino, sete e broccati purpurei, pesanti tende di velluto che facevano crollare il buio sulla camera, i tappeti persiani dai ricami arzigogolati, i lumi tenui delle lampade ad olio e delle candele, il camino freddo e spento di fronte al letto nel quale giaceva inerme la cenere risalente probabilmente ad anni prima, l'orologio a pendolo di legno intagliato a formare motivi floreali, uccellini e campanelle. Era un orologio molto strano. Il pendolo ticchettava ininterrottamente, dondolando per ogni secondo che passava, ma le lancette erano immobili. Mi avvicinai all'orologio, per poterlo osservare da vicino. Sembrava quasi rotto, forse qualche ingranaggio da aggiustare, eppure il pendolo oscillava, come se niente fosse. Attorno al quadrante, dove numeri romani circondavano il punto da dove partivano le lancette ferme, il legno era stato modellato e intagliato a formare piccoli petali di rosa e foglie d'edera che si arrampicavano lungo tutta l'altezza dell'orologio. Filigrana, pendagli in argento e rifiniture in ottone e zinco disegnavano cerchi e forme sul legno ricoperto di polvere. Vi soffiai sopra. Il legno divenne più lucido, il vetro del quadrante riuscì a mostrare con più chiarezza i numeri e le lancette, i colori dei fiori e delle campanelle divennero più sgargianti e nitidi. La polvere ricadde lentamente, come fluttuando, nella soffusa luce di una candela appoggiata sul camino. Dominava un'atmosfera lugubre nella stanza, quasi spaventosa. Il silenzio, le pesanti tende del baldacchino in broccato, la carta da parati di un oscuro rosso sangue, il camino spento e freddo, il buio negli antri e negli angoli nascosti della stanza e la luce tremolante e insicura delle lampade ad olio inondavano di inquietanti spiriti e sussurri immaginari la mia testa. Un'improvvisa stanchezza mi distolse da ogni mio pensiero, così tirai fuori dalla mia borsa il mio pigiama e me lo infilai. Spensi la candela sul camino e quella su un comò in mogano, così che l'unica fonte di luce nella stanza rimase la lampada ad olio sul vecchio comodino vicino al letto. Mi avvicinai al baldacchino e aprii le tende. Scostai la pesante trapunta ed entrai nel letto. Pure quello era freddo. Rimasi pochi secondi a guardarmi attorno e a riflettere. Lo sguardo mi cadde sulla carta da parati. E pensai alla carta da parati del corridoio, quell'infinita serie di visi, ma soprattutto a quello di Luvinia Finnegan. Quel volto così familiare, quel cognome troppo conosciuto, quel nome già sentito. Mi tormentava quella domanda. Dove e quando avevo sentito quella 'Luvinia Finnegan'?
Non lo sapevo, ma ero certa che avrei indagato sulla questione. Ad ogni modo, ero troppo stanca per pensarci in quel momento, così, spensi la lampada ad olio e, poco prima di vedere il buio pararsi sui miei occhi, notai quanto quell'orologio a pendolo somigliasse ad un mio sogno.
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Latte e Cenere
RomanceJune e December sono due gemelle, identiche. L'unico dettaglio che le distingue è una piccola voglia sulla spalla sinistra. Quella di June, bianca come il latte. Quella di December, nera come la cenere. Le due sorelle però sono destinate a cercars...