Portland

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11.13.
The Dalles, Oregon.

Tom guidò tutta la notte. Io cercai di dormire, guardai le stelle, chiusi semplicemente gli occhi oppure stetti in silenzio. Fu una lunga nottata.
- Tra un'ora dovremmo esserci. - mi rassicurò Tom.
- Bene. - fuori spirava un vento gelido, ma non pioveva più. - Sei sicuro di non volerti fermare? Magari puoi bere un caffè per darti un po' di energia.
- Tranquilla, June. Sto bene.
- Okay. - sbadigliai. - Tom, ora che ci penso, non mi hai mai raccontato come vi siete conosciuti tu e December.
- Beh, quello fu un bel giorno. Era, sì, se non sbaglio era il 6 dicembre. Aveva nevicato, quel giorno. Io stavo riportando le pecore nella stalla, Archie era andato a fare delle commissioni a Barron e lei era appena arrivata ad Arland. La sua auto si era impantanata nella neve e così mi chiese aiuto. Riuscii a liberare la macchina e lei mi ringraziò fino allo sfinimento. La sera stessa, la portai a cena fuori. Lei era bellissima, indossava un vestito rosso. Non dimenticherò mai quella notte. - sorrideva, pensando a lei, a loro due insieme, a quando si erano conosciuti.
Tacqui. Nessuna mia parola poteva curare un cuore tanto malato.

Portland era molto più bella di quanto mi aspettassi. Il Willamette River era un nastro d'argento che si snodava tra i grattacieli, i palazzi, i parchi e le vie della città, percorso da ponti come il Steel Bridge, l'Hawthorne Bridge o il Burnside Bridge che congiungevano Chinatown e Downtown con la Eastside. Downtown era piena di vita e energia, gente che prendeva tram, metropolitane, taxi, che girava in bicicletta, che faceva jogging nel Washington Park o nel Waterfront Park, lungo il fiume, ragazzi sullo skateboard e in motorino nel cosiddetto "salotto" di Portland, la Pioneer Corthouse Square, sulla quale si affacciavano la banca, il tribunale e la Abercrombie & Fitch. Viali alberati dove il traffico mattutino era alla sua ora di punta, sotterrati da uomini in giacca e cravatta col telefono sempre sotto mano e le valigette strapiene di fogli e calcoli e ragazzini con lo zaino in spalla sui marciapiedi. Turisti armati di macchine fotografiche e guide della città, pronti a visitare l'Oregon Zoo, Il Rose Test Garden, il Portland Japanese Garden, il museo d'arte, la Pittock Mansion o la Pioneer Corthouse Square. Donne che si incontravano per un tè in deliziose pasticcerie o caffetterie, giardini adorni di fiori e piante dalle forme più svariate, laghetti artificiali sui quali anziani signori si affacciavano per scorgere qualche timida rana o pesce rosso sbucare fra le ninfee e le piante acquatiche. Grattacieli e elevatissimi palazzi di vetro che riflettevano i raggi solari e creavano divertenti giochi di luce erano importanti sedi bancarie o centri commerciali, come il Wells Fargo Center, la Bancorp Tower e il Koin Center. Locali a Chinatown addobbati con lanterne di carta di riso illuminate, porte scorrevoli in bambù, bonsai e alberi di ciliegio ad ornare i tavoli e gli ingressi, tazze ricolme di infusi e tisane alle erbe, cameriere in kimono di seta, dalla pelle pallida e bianca come la neve, infradito in legno e chignon arricchiti con rami di fiori. Barche e motoscafi erano ormeggiati al porto fluviale e alcune imbarcazioni navigavano nel Willamette, godendosi la vista della città vivace e nel pieno del suo movimento, dai parchi pullulanti di scoiattoli sulle fronde più alte degli alberi e di gente in cerca di pace e silenzio ai grattacieli svettanti, dal "salotto" di Portland lastricato di mattoni color granata e punteggiato di turisti seduti sulle gradinate ad ammirare il via vai di persone nel tribunale, nella banca e da Starbucks all'International Rose Test Garden, munito di oltre 500 varietà differenti di rose che, nei periodi primaverili ed estivi, coloravano il parco, fiorendo in tutto il loro splendore.
La jeep sfilava di fronte ad ogni edificio, ogni negozio, casa, parco, giardino, caffetteria o ristorante.
Parcheggiammo.
- Ora provo a chiamare Abby. Speriamo solo di riuscire a trovarli ancora qui a Portland, altrimenti... - sussurrò Tom, tirando fuori dalla tasca il cellulare e digitando il suo numero di telefono.
Stavamo camminando lungo la SW Broadway, quando Abby rispose al cellulare.
Mentre loro parlavano io mi guardavo attorno, osservavo i palazzi, i negozi, le persone.
- Va bene, vediamoci lì. Dobbiamo parlarti, Abby. - disse Tom. - A dopo. - e riattaccò.
- Cosa ti ha detto? - feci io.
- Loro erano qui a Portland già da due giorni. Sarebbero partiti domani mattina. Comunque oggi pomeriggio li incontriamo alle tre in un certo... Lan Su Chinese Garden, in un posto chiamato Tao of Tea. Così consegnamo a Abby la lettera.
- Perfetto.
Nel frattempo eravamo arrivati in un enorme piazza. Lastricata di mattoni, circondata da possenti palazzi, negozi e ristoranti. La Pioneer Corthouse Square. Era bellissima. Il sole splendeva alto nel cielo e non faceva nemmeno troppo freddo.
- Ci prendiamo un burrito? - propose Tom sorridendo, di fronte a quella miriade di persone dalle differenti etnie ed età che riempivano di vita la piazza, avvolta da locali che vendevano succhi di frutta, tè e tisane, importanti banche e carretti degli hot dog e caldarroste.
- Sì, che fame!
La Waterfall Fountain era spenta, non zampillava più acqua e schizzi freschi, ma rimaneva una placida pozza trasparente sul fondo della quale giacevano delle monetine splendenti.
Entrammo in un locale, sulla cui porta campeggiava a caratteri cubitali la scritta: Honkin' Huge Burritos.
Ordinammo due burritos e ci sedemmo sulle gradinate della piazza per mangiarli.
- È bellissima. - mormorò Tom.
- È vero. - concordai. - E questo burrito è delizioso.
- Sei felice?
- Perché me lo chiedi? - sorrisi.
- Perché voglio che tu sia felice. Voglio renderti felice. Voglio essere la ragione della felicità di qualcuno, dato che non lo sono mai stato. Io, June, tengo davvero tanto a te. Sei importante per me. Dimmi, ti supplico, rispondimi. Sei felice, qui, ora, con me? In questa bellissima piazza, in questa città sconosciuta e incantevole, in questo viaggio alla ricerca di tua sorella? In questo viaggio alla ricerca dell'amore, della vita, di te stessa? Della felicità? L'hai trovata con me, June? Ti prego, June, dimmi di sì. Perché ho già perso December. Non voglio perdere anche te. - stava piangendo. Piangeva per me. Le lacrime avevano arrossato i suoi occhi e bagnavano le sue guance. Era bellissimo.
Meglio di qualsiasi cosa mi potesse capitare o venire in mente. Meglio di Portland, di Arland, del mare, del vento fra i capelli e del sole in faccia, delle luci di Boston di notte, del silenzio di fronte alle piccole cose, ad un sorriso, ad una parola, alla neve, ad un fiore, ad una nuvola, ad una stella cadente, meglio di un cielo stellato, di una canzone che ti riempie le orecchie, il cuore, gli occhi, meglio di piangere da solo, meglio di urlare a squarciagola ad un concerto, meglio di andare in bicicletta su una discesa, meglio dell'estate, meglio del tuo film preferito, meglio di un bicchiere d'acqua fresca dopo una corsa, meglio di scendere in slitta da una collina in inverno, meglio del Natale, della voce di una mamma, di un abbraccio, del calore di un camino, del profumo dei giacinti e del basilico, dei Club Sandwich alla caffetteria del campus, dello scricchiolio delle foglie secche in autunno, delle cicale, di una polaroid, delle memorie scritte in un diario, delle candeline il giorno del tuo compleanno, di un bosco, del fuoco, dell'intrecciarsi di due mani innamorate, del cercarsi di due sguardi vicini, ma lontani, della nostalgia di qualcuno che ami, della felicità.
- Sono felice, Tom. Qui, ora. Con te. Non potrebbe esserci nulla di più bello. Sono felice. - mi interruppi, guardandolo negli occhi e notando che un lieve bagliore illuminava le sue pupille. - E tu, Tom? Sei felice? Con me? In questo momento, in questa città, su queste gradinate, mangiando questi burritos, insieme a me. Sei felice?
Lui continuò a fissarmi, come se cercasse qualcosa nel mio sguardo, come se scavasse con l'intensità delle sue iridi i miei occhi per trovarvi un dettaglio, un'emozione, una scintilla di luce alla quale aggrapparsi.
E, con delicatezza, rispose: - June. Sono immensamente felice. Come non lo sono mai stato. Non so cos'altro dire. Sono qui, con te, e sento di non aver mai provato un tale senso di pace e serenità, con nessuno. Nemmeno con December. Non credevo fosse possibile, ma è così. È...
Un trillo. Squillò il telefono di Tom e, spaesato, rispose, chiedendosi tra sé e sé di chi si trattasse.
Era Ed.
- Ciao, Ed. - lo salutò. - Stasera? Ah, sì, credo che potremmo esserci. Va bene, grazie. - chiuse la telefonata. - Ci hanno invitati a cena.
- Chi? - domandai io.
- Abby e Ed. Stasera. Dicono che dato che poi ripartono domani mattina vogliono andare a cena fuori per brindare al nostro incontro, eccetera e... beh, in realtà non ho capito bene. Comunque ho detto che ci andiamo.
- Ti hanno detto in quale ristorante?
- No, mi hanno solo detto di incontrarci alle 19.15 davanti all'Ira Keller Fountain. E di vestirci eleganti. - rispose.
- Eleganti? Non ho nulla di elegante con me. - dissi, lasciando trapelare un po' di improvvisa agitazione e sorpresa.
- Allora andremo a comprare qualcosa. - mi sorrise.
Finiti i burritos, ci dirigemmo verso la zona del centro commerciale. Superammo il tribunale e raggiungemmo il Pioneer Place, ricco di negozi, da Victoria's Secret a Starbucks, da Tiffany & Co. alla Teavana, dall'Apple Store alla GAP, da Swarovski al McDonald's, da Louis Vuitton all'H&M.
Presi un milkshake alla fragola da Starbucks e nel frattempo cominciammo a dare un'occhiata per le vetrine. L'orologio del centro commerciale indicava le 13.54.
- Guarda quello, sembra davvero bello. - fece Tom, puntando con l'indice contro un abito senza spalline color carne, lungo fino ai piedi, il cui chiffon fasciava il petto, la vita e i fianchi, per poi svanire e lasciare il posto ad un leggero e morbido pizzo, dalle trattenute e lievi trasparenze.
Entrammo nel negozio, che vendeva vestiti da sposa, da sera o per cerimonie.
Una signorina minuta dai capelli corvini sistemati ordinatamente in una coda e dal sorriso rassicurante si avvicinò a noi: - Posso esservi utile?
Precedetti Tom: - Vorrei provare il vestito rosa pallido, esposto in vetrina. È possibile?
- Certamente. - rispose cercando in un cassetto bianco pieno di tulle, sete e tessuti raffinati l'abito della taglia giusta per me. - I camerini sono da quella parte. Ecco il vestito. - indicò a destra le tende grigie dietro alle quali ci si poteva provare i capi e mi porse l'abito.
Raggiungemmo la zona dei camerini ed entrai nel primo libero. Indossai il vestito.
Era stupendo.
Stringeva lungo i fianchi, sulla vita e sul petto per poi sfumare lievemente dallo chiffon drappeggiato ad un pizzo leggero e svolazzante, che lasciava intravedere le gambe nude.
Tom sbirciò dalla tenda grigia del camerino e rimase senza fiato.
- Sei... sei bellissima. - era diventato tutto rosso e non mi toglieva gli occhi di dosso, sembrava mi stesse divorando con lo sguardo. Non mi potevo vedere per avere conferma, ma ero certa che anche io ero arrossita di fronte a quell'inaspettato complimento.
- Grazie, Tom. Ma temo che non lo posso prendere. Ho visto il prezzo... ed è parecchio caro.
- Non importa quanto costi. Te lo voglio regalare io.
- Ma... Tom... Non posso lasciar...
- Non si discute. Qualsiasi sia la cifra.
Dopo che lo pagammo, uscimmo soddisfatti dal negozio, con il nostro sacchetto contenente l'abito tra le mani.
- Rimangono solo le scarpe. - concluse Tom.
- Tom, non è il caso, davvero. Abbiamo già speso abbastanza. Me la caverò con le mie All Stars...
- No. Assolutamente no. Ora cerchiamo un paio di scarpe come si deve. Quel vestito merita delle calzature al suo livello.
Così, cercammo anche un paio di scarpe.
Entrammo in un negozio di calzature, dove si trovavano moltissime scarpe col tacco, per le occasioni importanti.
Riuscimmo a trovare un paio di scarpe coi tacchi a spillo dello stesso colore del vestito, molto semplici e raffinate. Erano perfette.
- E tu? Hai qualcosa di elegante da mettere stasera?
- Sì, credo di avere qualcosa di adatto nello zaino.
- Okay. Che ore sono? - domandai preoccupata improvvisamente che arrivassimo in ritardo al giardino cinese dove dovevamo incontrarci con Abby e Ed.
- Le 14.47. Dobbiamo andare. E di corsa.
Uscimmo velocemente dal Pioneer Place. Alcuni taxi erano parcheggiati lungo la 4th Ave. Tom si avvicinò ad un tassista e gli chiese se poteva accompagnarci al Lan Su Chinese Garden, a Chinatown. Lui, un uomo calvo, piuttosto anziano e dai baffi bianchi, rispose: - Certo. Ci metteremo pochissimo, salite su.
Salimmo sul taxi che, in pochi minuti, attraversò la 4th Ave, girò a destra su Everett Street, per parcheggiare di fronte ad alcuni alberi e ad una sorta di arco di pietra sormontato da un tetto dai bordi rivolti all'insù e dalla forma tipicamente cinese.

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