- Io vengo dal Giappone, ho sempre vissuto lì, con i miei genitori. Mio padre, Nakamaro, si innamorò di mia madre, una donna del Minnesota, Natalee, quando erano molto giovani. Lei, a ventidue anni, arrivò in Giappone per un viaggio di studio della lingua giapponese. Quando conobbe mio padre alla Keibunsha di Kyoto, una biblioteca bellissima, ricca di testi storici e antichi, tutti in giapponese, fuori nevicava tanto e fu proprio grazie alla neve che si parlarono per la prima volta. Lui era uno studente dell'università. Parlava l'inglese, studiava la letteratura e la storia del Giappone. Era molto intelligente e gentile, mia mamma non poté fare a meno di interessarsi a lui. La portò in tutti i posti più belli di Kyoto e girarono insieme la città. Entrambi amavano lo studio, l'arte e la neve. E si amavano tanto, una volta. Lei decise di vivere con lui e stabilirsi a Kyoto. Trovò un lavoro semplice, da impiegata in una fabbrica. Pochi anni dopo, arrivai io. Quando nacqui a Kyoto, il 21 di gennaio, mia madre voleva darmi il nome dell'inverno, della neve, un nome che significasse il loro amore, il loro passato, la mia storia. Mi chiamò Yuki, neve. Avevo la pelle pallida come la candida cortina di neve che scendeva il giorno in cui ero nata. Crebbi a Kyoto, frequentai la scuola tradizionale giapponese, ma fin da subito nutrii una grande passione per le lingue, soprattutto per l'inglese. Volevo viaggiare, scoprire il mondo, sperimentare nuove culture, parlare con popolazioni differenti, vivere dove aveva vissuto mia madre da piccola. Avevo sempre trovato il Giappone troppo legato alle tradizioni, al passato. Mi piaceva l'innovazione, ciò che era diverso; volevo vedere quello c'era fuori. Mio padre, però, voleva che io imparassi i costumi e gli usi giapponesi. Lui, ormai, aveva abbandonato gli studi e lavorava nel ristorante che era appartenuto a suo padre, un ristorante che apparteneva alla nostra famiglia da generazioni. Voleva che io prendessi il suo posto, che cominciassi ad appassionarmi alla cucina tipica del Giappone, a base di riso, sushi e sashimi. Ma non era quello il mio mondo. Io ero come mia mamma, Natalee. Lei amava viaggiare e conoscere nuovi luoghi e persone. Lei e mio padre, un tempo così simili, erano diventati completamente diversi. Mia mamma viveva per il cambiamento, per l'istinto. Lui per la tradizione e le regole. - si fermò pochi secondi e potei vedere che si stava tagliando con le unghie i palmi delle mani bianche. - Un giorno, a sedici anni, decisi di lasciare il Giappone. Mio padre era deluso, mi vedeva come la figlia che non aveva mai voluto, come il suo più grande errore. Non vedevo altro che delusione e rimpianti nel suo sguardo disgustato mentre mi guardava. Era appena tornato a casa dal ristorante. Era notte, ormai. La mamma, che già dormiva, fu svegliata dalle grida di mio padre. Mi urlava contro di andarmene, di non tornare mai più da lui, mi incolpava di aver infangato il nome della nostra famiglia. Mi buttò sul tavolo dei soldi per partire, ma non mi toccò neppure. Non mi guardò negli occhi, non mi salutò. Mi ripudiava. Mia madre, da quel momento in poi, si allontanò da lui. Lui, che mi aveva cacciata con disgusto, con odio. Lui, che mi aveva trattata così male dal farmi venire gli incubi di notte. Mia madre non osava neanche più stare in sua presenza, da quando mi aveva urlata contro in quel modo. Non lo riconosceva più, non era più il ragazzo che aveva conosciuto in biblioteca, che si appassionava all'avventura, alla vita, alle emozioni. Era diventato freddo, insensibile. - le braccia pallide si irrigidirono e vidi la pelle d'oca propagarsi dai polsi fino al gomito, dove arrivava la manica blu del suo maglione. - Non sapevo dove andare. Così, per la prima volta, andai in aeroporto e presi il primo volo che trovai. Andai a Sydney. Là era tutto più vibrante, mi sembrava di aver preso vita. Profumi, suoni, persone di etnie e lingue diverse. Potevo parlare l'inglese, esercitarmi, conoscere nuove persone. La vita finalmente era nelle mie mani. Studiai al college e trovai un lavoro come bagnina alla Bondi Beach. Insomma, mi ero fatta un bel po' di esperienze. E nel frattempo mi tenevo in contatto con mia madre. Lei aveva lasciato mio padre ed era tornata nel Minnesota. Diceva che stava bene, aveva ritrovato il suo paese, i suoi familiari e alcuni vecchi amici. Mio padre non lo rividi né risentii mai più. - stava piangendo, timide lacrime le rigavano il viso, in ricordo del padre così deluso e carico di odio. - Mi laureai in lingue e cominciai a viaggiare in tutto il mondo. Girai per Bangkok, conobbi nuove culture, etnie e lingue. Poi andai in India, a Nuova Delhi e Mumbai, dove lavorai come tessitrice di sacchi di iuta per diversi mesi. Imparai a fare molte cose, a stare a contatto con persone diverse tra loro, diverse da me, a stare a contatto con mondi diversi, a non sottovalutarmi e a non sottovalutare gli altri in base al loro aspetto, al luogo dove abitavano, ai loro vestiti o alla loro cultura. Andai al nord, in Russia. Prima Mosca, poi San Pietroburgo. Vidi tante di quelle persone, tanti di quei posti, tanti di quei sorrisi e occhi. Udii tante di quelle voci, musiche, lingue differenti. Paesi scandinavi, la Germania, la Francia, la Spagna. Posso dire di aver viaggiato, di aver vissuto. Imparai il russo, il tedesco, il francese e lo spagnolo. Mi sentivo una cittadina del mondo, nessun posto era troppo lontano o troppo stretto per me. - sorrideva, in ricordo di quel periodo felice della sua vita. - Finché, una settimana fa, quando ero a Cordova nel mio appartamento dove abitavo ormai da tre mesi, mia madre mi chiamò al cellulare. Era da diversi mesi che non ci sentivamo. Mi disse di essere ammalata, di non sentirsi più bene, di aver perso la voglia di vivere. Era priva di forze, la sua voce era debole. Mi chiese di raggiungerla, era il suo ultimo desiderio. Sapeva che stava per morire e anche io lo sapevo. Così, mi misi in viaggio. Fu lungo, perché da Cordova partivano solo aerei per Madrid o Bilbao, quindi presi il treno e arrivai a Siviglia. Da lì volai a Chicago e poi nel Dakota del Nord. Noleggiai un auto e arrivai qui a Moorhead. Insomma, ormai mancavano poche ore al mio arrivo. Finché non cominciò a nevicare, e mi dovetti fermare qui.
Dominò il silenzio nella serra, rimaneva solo il candore della neve di cui Yuki portava il nome e le sue lacrime agghiaccianti. Attorno, il vuoto.
- Ho fatto tutta questa strada, per arrivare fin qui. Ho fatto tanti sacrifici. È da cinque anni che non vedo mia madre e mio padre. È da cinque anni che non parlo con mio papà. Non so se è vivo, se è morto. Non so niente di lui. Mia madre, ora, potrebbe essere anche morta, ma non lo saprei. Lei vive a Funkley, il paese con meno abitanti di tutto il Minnesota. Il paese più sconosciuto del mondo. Un paese quasi cancellato dalle carte geografiche, come io per mio padre, come lui dalla mia vita, come mia madre se n'è ormai andata via da me. - singhiozzò, e strinse a sé un candido fazzoletto di lino bianco, con ricamata in rosa una 'N'. - Il suo ultimo desiderio. Era rivedermi. Dirmi addio. Ora è troppo tardi. Troppo tardi. - scandì con sofferenza quelle parole, voltandosi per osservare la neve che cadeva a grandi fiocchi fuori. - Mia madre mi dette il nome della neve, della neve che le fece conoscere mio padre, della neve che cadeva il giorno in cui nacqui, della neve della mia pelle. E, ora, è la neve che mi separa da lei. E, ora, è la neve ad uccidermi, ad ucciderla. A disintegrarmi, a distruggermi da dentro. Peggio della morte. Lei è là che mi aspetta, ma io non arriverò. Non le dirò grazie, non le dirò buon viaggio.
Si appoggiò allo schienale della panchina e si girò verso le vetrate oltre le quali la neve ricopriva ogni cosa. Rimase in silenzio, forse ad aspettare che io le dicessi qualcosa. Ma non dissi nulla. Il dolore, l'odio, la paura. Erano cristallizzati nella neve, nel suo sguardo così vissuto, nella sua pallida pelle, nella serra, nelle sue lacrime. Contemplai quel mondo freddo che si celava al di là del vetro. E pensai a tutte quelle persone che stavano fuori da quella serra, lontane da me e Yuki. Tutte quelle persone irraggiungibili, lontane, eppure costantemente nei nostri pensieri. Pensai a December, a mio padre, a Natalee, a Nakamaro, a mia madre, a zia Imogen, a Luvinia Finnegan. Tutte quelle persone, tutte quelle anime, avevano intrecciato la mia storia e quella di Yuki. E, ora, eravamo lì, in silenzio, a scrutare con odio la neve, che ci separava da ciò che amavamo, ma che ci aveva fatte incontrare.
Yuki aveva smesso di piangere. Si era rassegnata. Aveva perso ogni speranza.
- Scusa. - disse piano, con la sua voce sottile.
- Per cosa? - domandai, guardandola negli scuri occhi a mandorla.
- Per averti... - cercò le parole nella mente così confusa. - annoiata con la mia storia. Probabilmente non ti interessava niente di quello che ho detto e non mi hai neanche ascoltata... Tranquilla, ci sono abituata. - c'era una profonda tristezza e delusione nella sua voce. - Grazie comunque.
Si alzò dalla panchina e fece per andarsene. Ma io la fermai, prendendola per un braccio: - Mi interessava ogni singola parola, invece. So quello che hai provato, posso immaginarlo. La mia vita è... piuttosto complicata. - mormorai. - Voglio aiutarti.
Come se in una stanza buia avessero acceso la luce, negli occhi neri mi ammiccò una scintilla di speranza.
Mi risedetti sulla panchina, e lei fece lo stesso.
Capii, nel momento in cui lei si voltò verso di me senza dire una parola, che era il momento di raccontare la mia, di storia.
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Latte e Cenere
RomanceJune e December sono due gemelle, identiche. L'unico dettaglio che le distingue è una piccola voglia sulla spalla sinistra. Quella di June, bianca come il latte. Quella di December, nera come la cenere. Le due sorelle però sono destinate a cercars...