Morton's the Steakhouse

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Io e Tom avevamo raggiunto la piazza dell'Ira Keller Fountain alle 19.10. Indossavo il vestito color carne, i tacchi e un pesante cappotto blu. Tom stava benissimo con il suo completo nero.
La fontana dominava sull'intera piazza, un tripudio di vita, colori, voci, suoni, odori differenti e vibranti, piogge di luccichii, ombre e persone tuffate nel caos quotidiano. Una cinta di alberi avvolgeva la struttura centrale, dinamica, composta da elementi tridimensionali, simili a parallelepipedi e cubi, quasi poliedrici, da cui grondavano cortine e schizzi d'acqua con cui bambini e ragazzini giocavano. Rivoli di pizzo, gocce ricamate nel chiaroscuro e merletti di luce scivolavano giù da quelle costruzioni quasi futuristiche, quelle piattaforme posizionate senza un ordine preciso, distribuite sullo strato d'acqua. Attorno, alcuni edifici gettavano le loro pesanti e oscure ombre sulla fontana, tra cui il grattacielo del Koin Center, il Keller Auditorium e la Portland State University Chamber Choir. I timidi lampioni e le luci nei palazzi cominciavano ad accendersi e ad illuminare la città, ormai immersa nel buio. Era un panorama stupendo, che riuscivo a percepire con lo sguardo, l'olfatto, l'udito, il tatto. Riuscivo a sentirlo su di me con tutti i sensi, con tutto il mio corpo. Eppure, nonostante ogni cosa tendesse le sue corde verso di me, mi attirasse e cercasse di catturare la mia attenzione, non riuscivo a distogliere lo sguardo da Tom. Non lo avevo mai visto così bello, così curato, i riccioli biondi e ribelli, il suo sorriso disinvolto, la sua pelle pallida che contrastava col nero della giacca e i suoi occhi grigi, sempre lì, sospesi tra i miei sogni e la realtà.
- Non ti ho mai vista così bella. - mi sussurrò nell'orecchio, prendendomi la mano. E facendomi salire un gelido brivido lungo la schiena.
- Tu stai benissimo. - feci io, evitando di arrossire. E poi, per cambiare discorso: - Quei bagni chimici al centro commerciale erano proprio terribili. - al solo ricordo di quel luogo angusto, buio e assolutamente antigienico mi venne voglia di vomitare.
- Sì, cambiarci lì non è stata un'ottima idea. - rise.
Aveva una risata meravigliosa.
- Purtroppo non potevamo fare altrimenti. Abby e Ed avevano prenotato quella visita guidata al museo d'arte e... Non importa, è andata così. - dissi.
- Che bella, June! - esclamò Abby, che apparve da dietro di noi all'improvviso.
Un vestitino nero, tutto paillettes e lustrini le arrivava alle ginocchia e le fasciava il torace, le braccia e la vita. I capelli biondi erano raccolti in un alto chignon tenuto stretto da una fascia di minuscole gemme lucenti, che brillavano nel buio. Arrivò subito dopo Edward, bellissimo, con una camicia bianca di lino, una giacca e dei pantaloni blu. Erano entrambi elegantissimi.
- Eccovi, finalmente! - li salutammo.
- Pronti per iniziare questa serata piena di sorprese? - ci sorrise Abigail, cominciando a camminare verso l'altissimo grattacielo illuminato. Il Koin Center.
- Assolutamente sì. - mormorò Tom.
Abby e Ed ci portarono al di sotto del grattacielo, di fronte ad un insegna con scritto sopra: Morton's the Steakhouse.
Entrammo nel ristorante, un'enorme camera illuminata da lampadari pendenti dal soffitto e ricca di tavoli con sopra bicchieri tintinnanti, tovaglie rosse, piatti di porcellana e candele accese.
Un cameriere dai capelli rossi e con la barba mal rasata, con indosso un gilet grigio e una cravatta bordeaux, si avvicinò a noi e domandò cortesemente: - Buonasera signori, avete prenotato?
- Sì. - rispose Edward. - Abbiamo prenotato a nome Anderson.
Aveva in mano un grosso taccuino, dalla rilegatura sbiadita e consunta, straripante di fogli, scritte, numeri e scarabocchi. Cercò in una lista un nome tra i tanti e, quando lo trovò, alzò il capo verso Ed.
- Anderson, sì, trovato. Vi accompagno al vostro tavolo. - cominciò a condurci verso un angolo della sala, dove un tavolo rotondo con quattro sedie attorno diffondeva luce attraverso una candela. - Buona serata, allora. - e se ne andò, lasciandoci i menù.
- È bellissimo questo posto. - commentò Tom, guardandosi attorno.
- Sì, ci portava nostra zia Imogen quando eravamo piccoli. Era il nostro ristorante preferito, adoravamo le patatine fritte con la bistecca al sangue. Ti ricordi, Ed? - Abby fissava la fiamma tremula e indecisa al centro del tavolo, come fosse un lontano e timido ricordo nella sua mente, che stava ormai appiccando un incendio di emozioni.
Ed, che era seduto di fronte a me, mentre ai miei fianchi c'erano Tom e Abigail, sorrideva: - Certo che mi ricordo, sorellina. - poi, scuotendo la testa, come per rimuovere una sorta di nostalgia di quei bei ricordi, quasi un vuoto improvviso dentro di sé, disse: - Io vi consiglio il pollo e l'aragosta. Sono entrambi deliziosi.
Mi accorsi solo in quel momento di quanto Edward era aggraziato, elegante e raffinato. I capelli scuri, gli occhi penetranti, il sorriso gentile. Lo scrutai attentamente. Ero talmente catturata dalla sua bellezza che non notai che anche lui mi stava guardando. Ci fissammo, per pochi istanti. Distolsi lo sguardo per l'imbarazzo, ma per minuti interi continuai a pensare a quegli occhi neri, dolci, eppure misteriosi, con un lato oscuro. Era bellissimo. Ma no, non più bello di Tom. Tom era il paradiso, un sogno, qualcosa di vicino, ma irraggiungibile. Edward era distante, ma terreno, possibile, sembrava al di là di uno stretto salto nel vuoto. Tom, invece, era il vuoto. Le farfalle nello stomaco, le stelle cadenti, la foschia della nebbia, la voragine della notte.
- Io voglio provare la bistecca, tu, June? - fece Tom, sfogliando il menù.
- Io il roast-beef, sembra molto invitante... con magari le baked potatoes come contorno. - risposi indecisa. - Tu, Abby?
- Il mio piatto preferito del Morton's è il filetto di salmone glassato al miele. Penso che prenderò quello.
Quando si avvicinò il cameriere dai capelli rossi per prenderci le ordinazioni, entrò una folata d'aria gelida dalla porta di ingresso, attraverso la quale era appena entrata una numerosa famigliola di, a giudicare dalla carnagione, indiani. Mi salì un brivido che mi strinse le ossa e la pelle, che collegai subito al refolo freddo di vento proveniente da fuori. No, me ne accorsi dopo che mi era venuta la pelle d'oca per un altra ragione. Qualcosa mi stava sfiorando l'avambraccio, appoggiato sulla tovaglia color porpora. Erano dita, dita affusolate e sottili, un contatto che avrei riconosciuto ovunque. Tom. Tom mi stava accarezzando il braccio delicatamente, formando una serie di cerchi con l'indice e, in questo modo, facendomi rilassare.
- Signori, volete ordinare? - domandò cortesemente l'uomo, che, mi resi conto solo in quel momento, aveva un accento irlandese molto evidenziato.
- Sì. Per me un filetto di salmone e per Edward... l'aragosta, giusto? - sintetizzò Abby.
Ed annuì.
- Il roast-beef e di contorno le baked potatoes. - ordinò per me Tom. - E io prendo una bistecca, grazie. - concluse richiudendo il menù.
- E da bere, signori?
- Portateci del vino bianco. - rispose Ed.
- Oh, scusate, - fermai il cameriere che se ne stava già andando. - io non bevo. Se non le dispiace prenderei una bottiglia di acqua naturale, grazie mille.
- Va bene. Grazie a voi. - e, portandosi dietro i menù e il suo taccuino sgualcito, si diresse verso il bancone sul quale bicchieri da cocktail e da vino erano appoggiati alla rinfusa.
- Allora, avete girato un po' per Portland in questi giorni? Avete visto dei bei posticini? - si incuriosì Tom.
- Portland è meravigliosa. In ogni angolo si trovano aree verdi, piazze e viali alberati, parchi, giardini. Il giardino giapponese e il Washington Park sono spettacolari. Certo, il Rose Test Garden sarebbe meglio visitarlo in primavera, quando milioni e milioni di rose dai colori sgargianti colorano i prati e le aiuole del giardino, ma... meritava di essere visto comunque. Come l'Oregon Zoo... ci abbiamo passato un intero pomeriggio, immersi nella natura. Vero, Ed?
- Oh, sì. E la Pittock Mansion? Una villa costruita nel 1914, completamente rivoluzionaria per quell'epoca. - incideva con il coltello dei minuscoli segnetti, quasi invisibili, sui tovaglioli di stoffa bianca. - Infine, il museo d'arte che abbiamo visto poco fa... davvero molto interessante.
- Wow. - esclamai. - Non mi sarei mai aspettata fosse una città così ricca di cultura, di arte... e di verde!
- E prima di venire a Portland avete visitato altre città? - li interrogò Tom.
- Siamo stati un po' a girare per il Parco dello Yellowstone, nel Wyoming. Un posto paradisiaco, pieno di laghi, crateri, geyser, getti d'acqua e di vapore, boschi e terreni ingialliti dallo zolfo. Un paesaggio stupendo. Pensate che, molto tempo fa, io e December ci andammo insieme, là. Era una gita scolastica. Ci divertimmo un mondo. Quel giorno di aprile, sì, me lo ricordo perfettamente, cancellammo i nostri segni rossi e blu sull'area nordoccidentale del Wyoming. Un frammento, una scintilla o brandello di sogno si era realizzato. - aveva gli occhi lucidi e stava osservando fuori dalla finestra i bagliori dei lampioni lungo Clay Street. - È stato bello tornarci.
Nel frattempo arrivò l'irlandese che ci servì i piatti che avevamo ordinato, la bottiglia di vino e quella dell'acqua. Erano un tripudio di colore e profumo, il cibo disegnava opere d'arte con le salse, la carne, il pesce, spruzzate d'olio e aceto, ritagli di pomodori e fette di limone a circondare le portate principali.
- Grazie. - fece Ed a nome di tutti.
Il cameriere dopo averci dato i piatti, se ne andò. Noi intanto avevamo già cominciato a mangiare.
- È delizioso. - disse Tom tra un boccone e l'altro.
- Davvero una squisitezza. - gli feci eco io, sorseggiando un goccio d'acqua.
- Cosa stavamo dicendo? - chiese Edward. - Ah sì, ecco... dopo essere stati nel Parco dello Yellowstone... - ma la sua voce era ormai lontana.
Un volto, già visto. Era laggiù, tra la folla, vicino al semaforo. Le macchine suonavano i clacson e la gente era un enorme massa scura in movimento nel buio. E lui, lui era là.
Mi stava fissando, con i miei stessi occhi. Occhi verdi. Come i miei e quelli di mia sorella.
Erano lucidi, lo riuscivo a vedere pure da quella distanza.
Le lacrime negli occhi illuminate dal bagliore prima rosso e poi verde del semaforo.
Indossava un giaccone marrone e una sciarpa di lana grigia.
Forse, fu solo una persona qualsiasi tra la folla, forse fu un'impressione o un sogno.
Ma era... così reale.
Poi, un autobus tagliò il suo sguardo, il suo volto.
Scomparve dietro le pareti metalliche del pullman.
Quando l'autobus se ne andò, lui non c'era più.
- June, ci sei? Tutto bene? - Tom mi riscosse dai miei pensieri.
- Eh? Ah, sì, tutto bene. Perché?
- Ti sei incantata. E... beh, a dirla tutta sembra che hai appena visto un fantasma. - cercò di sdrammatizzare Tom. - Sei pallidissima, sicura che va tutto bene?
- Sì, ehm... Vado un secondo al bagno.
- Okay.

Nel riflesso c'ero io. Ero diversa, però. Diversa da quella che ero. Più bella, forse. No, non era solo l'aspetto. Mi ero truccata bene, portavo i tacchi per la prima volta, indossavo un vestito elegante, portavo i capelli sciolti e ordinati, la mia spalla non aveva più una minuscola macchiolina bianca, ma una voglia nera. Ma quello non c'entrava. Ero io, ero io ad essere diversa. Era il vuoto dentro di me, la mia voragine, i miei occhi, la scintilla che vi si nascondeva nel profondo, i pensieri, i morsi sulle braccia, i tagli, le urla che mi laceravano la pelle. Qualcosa, se ne era andato. E qualcos'altro, invece, aveva preso il suo posto. Ero diversa, sì. Sorridevo, parlavo con le persone, mi piacevano tante cose, le stelle, il vento, le parole, la vita e, per la prima volta, riuscivo a scovare nella notte, la luce. Un tempo, quando non riuscivo ad addormentarmi, mi alzavo dal letto, aprivo la finestra, e osservavo, mentre tutte le luci del campus erano spente, il cielo. E avevo paura del buio, non vi trovavo altro che incubi, lacrime e vuoto. Ora, non mi soffermavo più sulle ombre, guardavo i luccichii delle stelle e la luna. Trovavo sogni, desideri, canzoni d'amore, baci segreti, abbracci nel buio, scintille di speranza. Perché, ormai, sapevo che c'era l'alba ad attendermi, e non importava quanto la notte fosse lunga o spaventosa. La luce e le tenebre avrebbero continuato a susseguirsi, in un ciclo perpetuo, lontano da quanto fossi felice o triste, lontano da Tom, lontano da me o December, lontano da ognuno di noi. I giorni sarebbero passati, le settimane e i mesi, magari, nonostante tutto. Nonostante fossi con lei o con lui, nonostante soffrissi, nonostante fossi sola o fossi felice. Non importava. Il tempo sarebbe trascorso su di noi. Come il vento cancella le orme o le scritte sulla sabbia, mentre la spiaggia resta, sempre, lì.
- June, stai meglio? - Abby era entrata nel bagno.
- Sì, abbastanza. - mi rinfrescai la faccia con l'acqua del rubinetto.
- Cosa ti è preso? Posso saperlo? - chiese gentilmente, avvicinandosi a me.
- Mi è sembrato... So che è una follia, ma... - sorrisi. - Mi è sembrato di vedere mio padre.
- Tuo padre? Qui a Portland? - era sbalordita.
- Sì, l'ho visto per un secondo. Mi stava fissando. Era vicino al semaforo, in mezzo a tutta la gente... poi... è passato un autobus... e lui non c'era più.
- Sì, ma... June, ragiona... Non è possibile. Tuo padre dovrebbe vedersi tra quattro giorni con December al Voyageurs National Park, non può essere qui a Portland. - aveva un tono dispiaciuto, come se si sentisse in colpa a dirmi quelle cose. - Ne sei proprio sicura, June?
- Non importa, Abby, andiamo. - scacciai quel pensiero con la mano, cercando di convincermi allo stesso tempo a cancellarlo anche dalla mia testa.

- Signori, desiderate il dessert?
- Sì, per favore, potrebbe consigliarci qualche dolce speciale? - domandò Tom.
- Beh, la nostra cheesecake al lime fatta in casa è davvero deliziosa. Ve la consiglio.
- Perfetto, per me allora una fetta di cheesecake. - rispose.
- Anche per me. - dissi.
- Altre due di cheesecake. - concluse Abigail.
- Va bene. - e ci lasciò.
Tom, come per rompere il ghiaccio che si era solidificato tra di noi da quando io ero andata in bagno, cominciò: - Abby, Ed, non ho capito una cosa, però. Voi avete detto che siete venuti a Portland per visitare la città. Ma se siete già venuti qui da vostra zia Imogen, perché siete voluti tornarci per visitarla... di nuovo?
- In realtà, Tom, l'ultima volta che siamo venuti qui a Portland è stato dieci anni fa. - rispose Edward. - Volevamo visitare Portland perché sapevamo che era un città stupenda e che meritava di essere girata, e dato che era ormai passato molto tempo dall'ultima volta che eravamo venuti qui... Niente, abbiamo deciso di farci una sosta e nel frattempo rivedere nostra zia.
- Avete viaggiato tanto nella vostra vita? - domandai incuriosita.
- Siamo di Worcester, come sapete. Nostro padre era nato lì, nostra madre, invece, era di Edimburgo. Tra viaggi in Scozia, terra materna, il Massachusetts, terra paterna, e visite agli zii e nonni in giro per l'America, da New Orleans a Montreal, da Anchorage a Città del Messico, siamo abituati a spostamenti.
- Che bello. - commentai. - Viaggiare sempre, spostarsi, girare il mondo.
Il cameriere irlandese ci portò i quattro piatti di cheesecake al lime.
Era davvero ottima, quel tono aspro del lime, la dolcezza della crema al formaggio e del biscotto, era tutto un gioco di contrasti. Come luce e buio, come bianco e nero, come giorno e notte, come estate e inverno, come giugno e dicembre, come me e December.
Finito il dessert, pagammo, uscimmo dal ristorante e seguimmo Ed e Abby, che ci portarono di nuovo nella piazza dell'Ira Keller Fountain.
- Eccoci qua. - disse Abigail. - Beh, in realtà, Tom e June, le sorprese non sono finite.
- Come? - non riuscivo a crederci.
- Chiudete gli occhi. - sussurrò Edward.
- Chiud... cosa?
- Chiudete gli occhi, su. - ci incitò. - E aprite le mani.
Tom chiuse gli occhi. Li chiusi anche io.
Aprii i palmi delle mani.
Occhi chiusi.
Un biglietto, un ticket, un foglietto di carta, forse, mi ricadde sulla mano aperta.
Un sussurro, la voce di Ed, vicino all'orecchio: - Apri gli occhi.

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