Il resto del viaggio fu un continuo silenzio alternato a discorsi riguardanti December, Abby e la nostra ricerca.
Continuammo ad avanzare fino a poco prima che facesse buio.
Ci fermammo in un campo, al confine tra l'Illinois e il Wisconsin.
Eravamo entrambi stanchi e così dormimmo nella jeep, con i sedili abbassati, sotto le stelle.
- La troveremo. - mi rassicurò Tom, come leggendomi nella mente.
- Lo so. - con il tettuccio aperto per vedere le costellazioni, ero riuscita a scovare la Stella Polare. - Vorrei solo sapere se sta bene. Cosa fa. Con chi è. Dov'è. Se ha trovato quello che cerca.
- Lo troverà. - strinse tra le dita la mappa, come se potesse in qualche modo avvicinarsi a lei. - Sai, credo solo... che sia stata colpa mia, forse. Che se l'avessi resa davvero felice, allora, ora non sarebbe fuggita. Penso... di aver sbagliato. Ho sbagliato tutto. - la sua voce si era incrinata e avevo sentito la sua disperazione farsi largo tra le crepe ancora aperte della sua anima, e raggiungere così i ricordi nascosti della mia sofferenza, per ritrovarmi, senza sapere come, nella sua stessa voragine.
- Tu l'hai amata. Questo non è qualcosa di sbagliato. - il vento freddo mi fece salire un brivido appena penetrò dal tettuccio abbassato.
- Io sono completamente sbagliato. Ho sbagliato in tutto. Con tutti. Non merito nessuno, né December, né Abby, né la mia dolce nonna Janet, né i miei poveri genitori, né te, June.
Nessuno mi vuole.
Ero io. Ero io. Io ero quella sbagliata, non lui. Lui era il ragazzo più bello che avessi mai visto, il ragazzo migliore che avessi conosciuto, il ragazzo più stupefacente che potessi mai incontrare. In lui era tutto perfetto, tutto un miracolo, tutta luce. Io, ero ombra.
Io lo volevo. Io volevo stare con Tom e dimostrarglielo. E stringerlo a me. Sussurrargli e gridargli parole di felicità. Farlo sentire a casa. Donargli tutto l'amore che non aveva mai ricevuto. Che io non avevo mai ricevuto.
Ero innamorata di lui dalla punta dei piedi a quella delle dita.
- Io sì, Tom.
Si girò verso di me, distolse lo sguardo dal cielo stellato e di nuovo un tuffo al cuore. I suoi occhi.
Eravamo stesi sui sedili completamente reclinati, con una coperta di lana rossa a coprirci dal freddo e il tettuccio aperto sull'oceano di costellazioni, al confine tra il Wisconsin e l'Illinois.
Un lupo lontano, nel bosco vicino al prato in cui ci trovavamo, ululò nel silenzio della campagna. Non un suono, solo quel distante e irraggiungibile ululato. E quelle corde, che ci separavano, vibranti.
Mi fissò. E io lo fissai.
Si avvicinò.
Sempre di più.
Eravamo alla distanza di un battito di ciglia.
Ed era così meraviglioso.
Sussurrò poche parole.
Che mi rimasero nell'anima per sempre.
- Sbagliamo insieme.
E mi baciò.
Fu un bacio leggero, posò delicatamente le sue labbra sulle mie. Avevano un sapore così dolce, quasi un nettare proibito, l'ambrosia degli dei, una droga di cui non potevo fare a meno. E più mi veniva vietata e più ne desideravo ancora. Era un piacere troppo forte, qualcosa di mai provato, qualcosa che mi sfarfallava nella pancia, mi faceva rabbrividire sulla schiena e mi formicolava le dita, strette al suo collo. Le nostre labbra rimasero dischiuse l'una sull'altra, ognuno col respiro dell'altro in bocca.
Era stato il mio primo bacio.
Uno di quei baci da film, uno di quei baci desiderati, uno di quei baci sussurrati, uno di quei baci di notte, uno di quei baci sotto le stelle, uno di quei baci fatti di occhi, di mani, di labbra, di respiri, di buio, uno di quei baci rari, uno di quei baci stretti, vicini, avvinghiati, veloci, istantanei, ma talmente intensi da riuscire a toccare le cicatrici anche più profonde in un solo attimo, e lasciare il segno di un sorriso, di un raggio di luce, di un secondo di felicità, nel buio del vuoto.
Lo guardai negli occhi e vidi il mio riflesso, il riflesso di una ragazza, una ragazza identica a me, a quella che ero. Solo, felice.Il mattino seguente non parlammo più del bacio, ma si sentiva che nell'aria qualcosa era cambiato, che c'era l'amore. O forse, era solo il riflesso del mio, nei suoi occhi. Forse, era solo una maledetta impressione.
- Pronto a ripartire, Tom?
- Adesso sì.
Gli sorrisi.
Mise in moto la jeep ed eravamo di nuovo in viaggio.
Eravamo entrati nel Wisconsin.
Ero sempre più vicina a lei, mancava poco.
Sapevo che forse non l'avrei trovata ad Arland, ma ero certa, che, qualcosa, non sapevo esattamente cosa, mi avrebbe resa un po' meno lontana da lei. Un qualche indizio, segno, oggetto.
- June, scusa per ieri sera, non so cosa mi sia preso.
- Scusa? Tom, non devi scusarti. È stato... - il miglior primo bacio del mondo.
- No... Invece devo scusarmi. Sei così identica a lei. Qualcosa dentro di me deve avermi fatto pensare a December, probabilmente ero solo un po' confuso. Il tuo viso, la tua voce, il tuo modo di fare mi hanno fatto ricordare l'amore immenso che provavo per lei. Ma non voglio farti stare male, né illuderti. Hai già sofferto abbastanza. Volevo solo che lo sapessi, ecco.
Mi aveva già illusa. Mi stava già facendo soffrire.
Io ero identica a lei, identica a quello che era la perfezione, ma ero la sua copia sbagliata, il suo falso riflesso, la sua immagine brutta e insignificante.
E lui amava la copia perfetta, il riflesso luminoso e più bello.
Io no. Io rimanevo nell'angolo. Era quello che mi riusciva meglio. E non ne potevo proprio più.
Volevo innamorarmi, amare, smettere di soffrire. Eppure, forse, era giusto che non infrangessi la mia promessa. Perché non ero fatta per essere felice, io ero e sarei sempre stata la parte peggiore e più oscura. La mia voglia era diventata nera, nera come me, come il buio della mia voragine interiore, come il vuoto dentro di me. Magari, era giusto così.
Non mi trattenni.
Piansi a dirotto.
Le lacrime mi bagnavano le guance, gli occhi rossi, i singhiozzi.
- June, calmati. Ti prego, non fare così.
Gridai: - No, Tom! Per te è facile dire che non è stato niente. È facile cancellare tutto solo con qualche parola. Ma non lo è. Io non ho mai provato nulla di simile per nessuno, non mi sono mai innamorata, non ho mai dato il mio primo bacio. Non puoi dire così. Non puoi. - mi sfogai tra i singhiozzi, urlando nella jeep.
- June. Non amarmi. Ti prego, non versare lacrime per me, non soffrire, non pensare a me. Meriti qualcuno migliore di me.
- Tom, sai qual è il problema?! - strillai. - Che amerai December. Continuerai ad amarla, qualsiasi cosa accada, sempre. Conoscerai nuove persone, lei viaggerà e conoscerà altrettanta nuova gente, ma penserai solo a lei. Sei un cuore malato. Malato d'amore. Incurabile. Passeranno gli anni, Tom. E continuerai a pensare a quella ragazza senza tempo, incapace di amare, così sfuggente e diversa dalle altre. Lontana dal nostro mondo. Da tutti. Da te. E soffrirai. Non vivrai mai una vita serena e felice con qualcuno, solo perché rimarrai fermo su di lei, con la speranza che possa, un giorno, tornare da te. Ma lei fugge. Vola via dal mondo e dagli umani. E non amerà. Non ne sarà in grado. Finché non troverà il posto giusto per lei. La persona giusta. Ma non lo vuoi ammettere, Tom. Dentro di te, rimane viva questa piccola e luccicante speranza, questo miraggio, questo bagliore irraggiungibile, che scompare pian piano, ma di cui, un minuscolo e fioco scintillio, resterà sempre.
Tacque.
Le nuvole avevano oscurato il cielo e una nebbia fitta circondava la jeep e il resto del paesaggio.
Piangevo ancora.
Piangevo mentre parlavo.
Piangevo dentro di me, piangevo con le parole, piangevo con gli occhi, piangevo perché non potevo crederci di aver detto quelle parole così affilate e crudeli, piangevo perché lo amavo, piangevo perché il vuoto che tenevo dentro di me era troppo pesante da reggere, piangevo perché mi odiavo con tutta me stessa, piangevo perché lui preferiva l'altra parte di me, December.
Piangevo perché anche Tom stava piangendo.
Piangevo con lui, e, forse, lo sentivo un po' più vicino per questo.
Piangevo nell'abisso di una sua lacrima amara.
Piangevo.
E mi accorsi, guardando fuori dal finestrino, che delle goccioline avevano cominciato a cadere e avevano rigato il vetro.
Anche il cielo, in qualche modo, stava piangendo.
- Hai ragione, June. Amo December. E non smetterò mai di amarla. Forse è per questo che ho deciso di aiutarti a trovarla. Perché quella piccola e nascosta parte di me che la amerà per sempre ha colto un briciolo di speranza in più nel poterla rivedere quando sei arrivata tu. Perché se lei ti conoscerà, sarà felice, e se lei troverà finalmente l'amore, trovando te, allora anche io sarò felice. È la mia condanna, la mia maledizione. E forse, è proprio per questo che non voglio staccarmene. Lei sarà sempre lì, occuperà sempre quello spazio del mio cuore, quel luogo senza tempo. Non lo voglio ammettere, ma lo so che è così. La amo, e la amerò per il resto dei miei giorni. E ho sbagliato, ieri sera. Non so cosa mi sia preso, davvero. Ma per quel breve e veloce istante, lei era lì. Lei era te, tu eri lei. La voglia nera, il suo stesso sguardo, la sua stessa voce, le sue mani, il suo viso. December, c'era. Sono destinato ad amarla. E a vivere con questo pensiero fisso, questo incantesimo maledetto. December. - mormorava quelle parole così taglienti tra una lacrima e l'altra, piangendo. Forse era la prima volta che le pronunciava ad alta voce, forse le aveva sempre tenute per sé e non aveva mai avuto la forza di ammetterlo. Soffriva, e con lui, anche io.
Lo amavo. E lui, amava l'altro lato di me, quello più luminoso, bello, chiaro.
Piansi altre lacrime inutili. E non dissi nulla.
Il vuoto che avevo dentro, il baratro in cui stavo sprofondando, era più buio di qualsiasi mio silenzio. Di qualsiasi mio sguardo. Di qualsiasi mio urlo, taglio, parola. Avevo toccato il fondo.
E, questa volta, non mi sarei più risollevata facilmente.Madison.
12.00.
- Vuoi che ci fermiamo?
- No. Voglio solo arrivare ad Arland. - dissi in tono freddo, senza degnarlo di uno sguardo.
Non gli rivolsi la parola, durante il resto del viaggio. E lui, solo qualche breve ed essenziale domanda. A cui io rispondevo distaccatamente.
Pioveva forte, fuori. E faceva freddo. Freddo come il gelo che si era cristallizzato tra di noi, e che, a fatica, si sarebbe sciolto.16.07.
Arland era composta da poche case, in mezzo alla campagna. Qualche ranch, fattoria, villetta o semplice casa di legno con veranda e giardino. Il Tainter Creek, il Thompson Park, la 9th Ave. Tutto aveva preso vita davanti ai miei occhi, ogni racconto, storia, aneddoto, parola, immagine, fotografia, era reale. Il profumo del bosco, della campagna, delle case, del freddo, del legno cadente delle fattorie, del Thompson Park, della strada, che poteva portarti ovunque tu volessi. Ogni filo d'erba, ogni silenzio, ogni goccia di rugiada era uscita dal diario di Tom, dalle pagine dei suoi ricordi, dalle frasi dei suoi racconti e si era materializzata di fronte a me, esattamente come l'avevo immaginata. La 9th Ave era dritta e infinita, tagliava in due i campi congelati dal tempo e dal freddo e affacciate ad essa alcune case, solitarie e prive di vita, tacevano nell'immensità della campagna. Era tutto così incredibile. Quello che per giorni e notti intere avevo ipotizzato, sognato, disegnato nella mia mente, era lì. La pioggia si era acquietata da poco ed era tutto umido e bagnato, dai tetti dei ranch ai tronchi di alcuni alberi. Nessuno. Solo io e Tom, chiusi nella jeep. Ad aspettare. Aspettare che qualcosa accadesse, che qualcuno dei due parlasse, che Arland si muovesse o ci desse il benvenuto. Eravamo arrivati. Arrivati alla nostra meta, al nostro obiettivo.
Eppure, nonostante provassi in tutti i modi ad essere felice, qualcosa dentro di me sembrava impedirmelo. Ero arrivata ad Arland. Arland, quel luogo senza tempo, lontano da tutto e da tutti, dove Tom e December erano stati felici, insieme, tanto tempo fa. Sì. Forse era questo. Tom e December. Qui. Avevano vissuto ogni momento felice insieme, qui. Ad Arland. E mi sembrava che stessi oltrepassando un qualche limite, una qualche barriera trasparente. Forse era sbagliato. Ero entrata nel loro passato, nei loro segreti, nei loro pensieri, avevo visto il loro luogo senza tempo. Il loro amato, forse anche un po' odiato, luogo senza tempo. Arland. Non la capirò mai. Quella sorta di maledizione, che ci teneva legati a quel posto. Eravamo incatenati, tutti quanti, lì. Eravamo destinati a quel luogo. Io, December e Tom. Era una condanna, lo sapevo, ormai. Ognuno che rincorreva l'altro, senza mai ritrovarsi. Questa era la nostra storia. Con troppi compromessi, troppe scuse, troppi errori, troppi rimpianti e rimorsi. Una storia sbagliata, sbagliata come noi, come gli occhi di Tom, come la mia voragine interiore, come la distanza fra me e December. Una storia senza tempo, sospesa fra il passato, difficile da ricordare, il presente, fatto di orgoglio, paura e, forse, anche amore, e il futuro, una continua corsa per ritrovarsi a vicenda, ritrovare se stessi e scoprirsi.
E in quel posto, in quel posto mai visto, mai toccato, mai sentito sulla pelle, sugli occhi, sul cuore, ma che ormai conoscevo alla perfezione, oppressa da cupi nubi nere e da pensieri contrastanti tra l'odio e l'amore, riuscivo solo a pensare alla maledizione, a quella specie di incantesimo che legava noi, le due gemelle Promwark, e Tom Blakley.
Io lo amavo. E lui amava lei. E lei, chissà dove, chissà con chi, chissà perché, stava fuggendo. E, chissà, quando avrebbe trovato quello che cercava.
STAI LEGGENDO
Latte e Cenere
RomanceJune e December sono due gemelle, identiche. L'unico dettaglio che le distingue è una piccola voglia sulla spalla sinistra. Quella di June, bianca come il latte. Quella di December, nera come la cenere. Le due sorelle però sono destinate a cercars...