Lilith

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Sei occhi mi fissavano. Due occhi grigi. Due occhi azzurri. Due occhi neri. Vedevo a stento una sorta di bagliore dorato e qualcosa di scuro. Aprii completamente gli occhi. Mi sembrava di essere stata assente per un tempo interminabile, forse un'ora o un giorno intero. Non lo sapevo. Ma era come se fossi emersa da un lungo sonno, come un coma. Abby, Tom e Ed erano chini su di me. Ero stesa su qualcosa di duro e scomodo. Sui sedili posteriori della jeep. Capii che il barlume d'oro corrispondeva ai lunghi capelli di Abby che mi ricadevano addosso. E la macchia scura indistinta era la Nikon che pendeva dal collo di Ed. Avevano degli sguardi preoccupati. Tom aveva un'ombra cupa sul volto, negli occhi. Non lo avevo mai visto in quello stato. Sembrava spossato, spaventato, improvvisamente triste. Era ammutolito.
- June! June, stai bene? - ansimò Abby.
Mormorai un indistinto 'sì'.
- Tieni. Bevi un po' d'acqua. Ti farà bene. - Ed mi allungò una bottiglietta ricolma d'acqua e ne ingurgitai qualche sorso.
Tom continuava a fissarmi, senza togliermi gli occhi di dosso, senza dire niente.
- Sei svenuta... Sei rimasta priva di sensi per dieci minuti! - esclamò ansiosa Abby. - Beh, meno male che stai bene.
Non dissi niente, mi mancavano ancora le forze.
- Ora è meglio che riposi. Dormi un po'. - mi tranquillizzò Abigail, sedendosi di fianco a Tom, al volante, mentre Ed si sistemava vicino a me.
Chiusi gli occhi.
Prima di addormentarmi, sentii il rombo della jeep che partiva e il respiro di Ed sulla mia guancia mentre si avvicinava per darmi un lieve e impercettibile bacio.

Una tela bianca. Lei, seduta sullo sgabello, di fronte al cavalletto. Un pennello in mano. Colori. Tenui, soffusi, mescolati l'uno con l'altro per sfumarsi in cascate di arcobaleni e praterie fiorite. In riquadri di sogni. Lei era lì. Che dipingeva. I suoi capelli di un castano chiaro, la sua pelle ambrata. La rividi, in quel freddo giorno di novembre. Con la sua solita maglietta sporca di acquaragia e i suoi jeans rattoppati e macchiati di colore. Scalza, sul parquet di casa. Stava lì, e tracciava un veloce e istantaneo segno sulla tela. Fissava un punto fisso, al centro del candore immenso del quadro ancora spoglio. Io c'ero, ma in realtà ero lontana. Ero come immateriale, distante dal ricordo. La memoria mi aveva portata in quel posto ormai dimenticato, senza sapere come. La nostra vecchia casa, i mobili come una volta, il divano verde e i suoi cuscini rossi che sembravano papaveri sul prato estivo, le finestre spalancate sulla pioggia. Fuori pioveva un mondo grigio, ma lì dentro esplodeva il colore. Il colore dell'amore di una madre e di una figlia. La pittura scarlatta gocciolava dalla tela, graffiandola, incidendola, rigandola, come sangue su una ferita. La ferita ancora aperta del mio cuore. Rimase immobile di fronte a quel taglio rosso sulla tela bianca. Lo scrutava, come se aspettasse che accadesse qualcosa, come se da un momento all'altro il quadro si sarebbe completato da solo, o come se cercasse di capire qualcosa. Mentre fissava le gocce rosse precipitare giù dalla tela, col pennello a mezz'aria e la pioggia che grondava fuori, arrivò una bambina, dai capelli scuri e la pelle pallida come la tela vuota. La donna sullo sgabello non la udì, non se ne accorse nemmeno del suo arrivo. I suoi occhi erano ancora concentrati sul dipinto. La bambina si avvicinò silenziosamente alla madre, finché non notò, al centro del tavolo, qualcosa che catturò la sua attenzione. Era un foglio di carta, ripiegato. Lo afferrò con cautela, e corse via.
La donna stava ancora scrutando con attenzione il segno scarlatto sulla tela. Era impassibile, come racchiusa in un un mondo a sé, che comprendeva il dipinto e lei. Nessun'altro.
Poi, qualcosa, fra i ricami rossi di pittura e i segni del pennello, si mosse. Qualcosa, sbocciò. Sembrava un fiore, una creatura vivente. Che si aprì di fronte alla donna, sulla tela. Era un'enorme corolla di pizzo, di petali, di piume, di nuvole, di sangue. Quel disegno rosso che era nato dal taglio sulla tela si ingrossò sempre di più, sempre di più.
La bambina se ne era andata ormai.
L'enorme fiore grondava sangue dai petali grinzosi e rugosi della sua corolla. Era, quasi, un fiore di morte. Di malattia.
Si ingrandì sempre di più, sempre di più.
Finché anche lei non fece parte del quadro, del fiore, del disegno scarlatto.
Era diventata parte di quell'enorme e spaventoso cerchio rosso.
Era stata inglobata nella sua stessa opera. Un'opera di sangue e di sofferenza. Un'opera di malattia e di tagli sulla tela. Un'opera di ferite e di silenzi.
Un'opera che racchiudeva la fine di un ciclo. O l'inizio della fine.
Si trattava di qualcosa di molto più che una semplice opera, che una semplice tela, che un semplice pennello, che un semplice colore rosso, che una semplice lettera, che una semplice ferita.
No. Quella era una ferita troppo profonda.
Una ferita che avrebbe continuato a perdere sangue, fino alla fine.
E quella era la fine. L'inizio della fine, della fine di quel ciclo che chiamiamo vita.
La morte.

Latte e CenereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora