Worcester

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- Come? Ci fermiamo? Siamo appena partiti. - domandai sconcertata a Tom.
- Sono a corto di benzina. Faremo una sosta a Worcester.
- Facciamo in fretta, non voglio perdere tempo.
- June, ma non volevi vivere un'avventura? Vedere il mondo? Essere felice? - s'interruppe e abbassò il volume della musica della radio. - Stai tranquilla. Abbiamo tutto il tempo che vuoi. Ti fidi di me, June?
Sì, mi fidavo di Tom. Non sapevo nemmeno il perché, ma era così. Me lo sentivo. Dopo tutte le promesse che mi ero fatta, basta. Volevo vivere. Volevo provare amore, provare nuove esperienze, provare ad andare oltre le mie aspettative. Superarle.
Finalmente volevo cambiare. Cambiare la mia vita.
- Mi fido di te, Tom.

Worcester era una città settata in mille e più villette tutte uguali, disposte ordinatamente una di fila all'altra. Tutte bianche o grigie, senza particolari differenze tra di loro. Tetti neri, finestre rivestite di tendine di pizzo, portoni dai battenti d'ottone, cancelletti arrugginiti, prati tagliati finissimi e alternati qui e là da pianticelle aromatiche o vasi di gerani, vialetti di mattonelle o ciottoli. Pensai alla monotonia di quelle case, che apparivano talmente identiche l'una all'altra che neanche si distinguevano più e quanto fosse incredibile la diversità, la differenza.
Aveva ragione il professor Moonlick, era bello essere diversi in un mondo dove la società aveva indirizzato ogni singolo individuo sulla stessa lunghezza d'onda, tutti allo stesso livello, tutti immersi nella nebbia, stessi pensieri, stessi vestiti, stesso marchio di scarpe, stesso taglio di capelli, stessa maschera addosso. Stessa maschera per nascondere la paura, la paura di essere se stessi.
Rifornimmo la jeep di benzina.
Dopo di che Tom prese una strada diversa. 
Non stavamo tornando sull'autostrada, andavamo nel senso opposto.
- Dove stiamo andando?
- Vedrai.
Sembrava completamente sicuro di sé. Ero leggermente nervosa, ma comunque con Tom riuscivo solo a sentirmi al sicuro, come protetta. Per la prima volta.
Intanto il tempo era migliorato ed era uscito un bel sole.
In giro c'era il solito caos mattutino di una grande città, il traffico, il lavoro, taxi e pedoni indaffarati.
Tom guidava con sicurezza a Worcester, come se ci fosse già stato, come se ci avesse vissuto per una vita.
La jeep si fermò davanti ad un parco. Un'insegna indicava: Green Hill Park.
Era enorme, una foresta nel cuore di quella noiosa monotonia cittadina. Querce, larici, abeti, olmi, betulle, faggi e frassini dominavano il panorama autunnale, colorato dell'oro e del bronzo di novembre, disseminato di foglie secche cadute sulle radici sporgenti degli alberi spogli. Uno spettacolo meraviglioso, arrugginito allo stesso tempo nel grezzo abbandono della natura a novembre, nel letargo degli scoiattoli e dei ghiri nelle loro tane, nel freddo e quasi nel congelato e immobile momento di qualcosa che si sta aspettando. Attesa. L'autunno è attesa. Attesa di una foglia che è in bilico su un ramo. Che forse cadrà o forse no. Attesa dell'arrivo dell'inverno. Attesa del Natale, della neve. Attesa della fine o dell'inizio di qualcosa. Sei sul filo del rasoio, sei una funambolo sospeso su un burrone. Rimani in attesa, e forse non sai nemmeno di cosa, ma aspetti.
- Perché siamo qui? - domandai sorridendo. Ero felice. Non lo sapevo, ma lo ero. Perché quando sei felice non te ne accorgi nemmeno. Non ne sapevo neppure il motivo, in realtà, ma spesso il nostro cuore ci guida meglio della testa, e sa prima di noi quello di cui abbiamo bisogno.
- Non posso ancora dirti niente. - rise.
Aveva una risata stupenda.
- Ma come?! - recitai la parte dell'offesa. Stetti al gioco.
Era bella la felicità.
- Dai, dimmi dove mi porti! - lo supplicai scherzando.
Si stava dirigendo verso l'interno del parco e lo seguii.
Arrivammo ad un chiosco dove vendevano alcuni toast e panini.
Prese due sandwich con pomodoro e mozzarella, due bottigliette d'acqua e s'incamminò verso una piccola radura all'ombra di un immenso salice che abbracciava l'intero prato appena tagliato. Si sedette sotto la pianta, appoggiato al tronco di questa e mi sorrise: - Accomodati.
Mi sedetti accanto a lui e riuscii solo a dirgli: - Sei pieno di sorprese tu.
- Lo so, June. - si vantò. - Volevo che ti rilassassi un po'. Che imparassi l'arte dell'oziare. E non c'è niente di meglio che uno spuntino nella pace di un parco come il Green Hill Park per farlo.
- Sembrava proprio che ti orientassi bene nella città. - commentai assaporando il primo boccone del panino.
- Infatti è così. Ho viaggiato molto nella mia vita. Ho vissuto a Worcester per un anno. - parlava guardando in alto, come per rammentare momenti lontani di vita.
- Deve essere difficile tornare in posti una volta familiari dopo anni. Sentire... - mi fermai per trovare le parole giuste. - il tempo che passa.
- Difficile... sì. Ma non userei solo quella parola, ci sono più emozioni in un istante. Forse persino bello, strano e commovente. Vedi una città o un luogo che cambia, che si è evoluto e tu non lo hai visto modificarsi. È come per una madre non vedere il proprio figlio crescere. Un tempo ti era così familiare e ce lo avevi sempre sotto gli occhi, lo potevi disegnare al buio talmente ti era noto. Poi lo perdi di vista per un po' di anni e lo rivedi che è diventato un uomo. Tutti quegli schizzi, quelle bozze, quei disegni che ti eri fatto nella mente di tuo figlio si cancellano. Vanno ridimensionati, vanno aggiustati e sistemati. Ti senti... spaesato. Hai perso un pezzo. - concluse sorseggiando dell'acqua frizzante.
- Il pezzo mancante. - gli feci eco io.
- Ti piace?
- Il panino? Sì è buono, dai.
- No ahah – rise. -  Non intendevo il sandwich, parlavo del parco. Ti piace?
- Bellissimo.
Stetti qualche minuto in silenzio a guardarmi intorno. In lontananza si vedeva il Green Hill Pond e altre verdi collinette sotterrate da foglie secche ammassate ai lati dei vialetti che si snodavano per il parco e disseminate di funghi e muschio.
Il parco per quell'ora era molto tranquillo, solo qualche donna che faceva jogging o uomo anziano fermo su una panchina a riposarsi all'ombra.
Poi, la vidi.
Splendida.
Capelli biondi lunghi fino a metà schiena, lisci come spaghetti, carnagione pallidissima e perfetta, alta e snella, viso bellissimo e delicato come quello di una fata. Due occhi incredibili. Blu come l'oceano, come il ghiaccio.
- Abby. - disse Tom.
E le corse incontro.
Lei si illuminò appena lo vide e lo strinse forte al collo, lo abbracciò forte, come quando incontri qualcuno dopo tanto tempo, che ti manca tanto, un po' come nei film.
Io rimasi sola, ad osservarli. Sembrava un qualcosa di perfetto, quell'abbraccio. I loro sorrisi, gli occhi leggermente lucidi, gli sguardi, le braccia avvinghiate, i corpi stretti che superavano ogni distanza di tempo e spazio. E riuscivo solo a sentirmi inutile di fronte all'immensità di quel sentimento, di quell'amore. Sì, perchè avevo capito che era amore. E a pensare solo a quella parola, a quella parola che faceva così male anche semplicemente a pronunciarla, guardando quel quadro così completo e lontano da me, non potevo far altro che sentire una terribile fitta nel petto, che non so esattamente spiegare cosa fosse, ma era qualcosa di doloroso, nel vedere Tom felice con quella ragazza così bella, nel vedere Tom stretto a lei, nel vedere Tom lontano da me, nel sentirmi improvvisamente così vuota.
Tom mi gridò qualcosa che non sentii con chiarezza, ma che sembrava un "vieni", così mi avvicinai a loro.
- June, ti presento Abigail, una mia cara amica.- mormorò Tom.
Amica. Tirai un sospiro di sollievo.
- Molto piacere Abigail. - le strinsi la mano.
- Il piacere è tutto mio, June, ma puoi chiamarmi anche solo Abby. - si interruppe e sentii solo in quel momento che aveva addosso un profumo alle rose che faceva pensare ai prati fioriti del college, in primavera. - Allora Tom, cosa ci fai a Worcester?
- Io e June siamo in viaggio. Abbiamo fatto solo una breve sosta.
- Non ci credo! Ma guarda un po' che coincidenza! Pensa che pure io e Ed siamo di partenza! Domani lasciamo la città, vogliamo visitare un po' di posti, girare per gli Stati Uniti. Amiamo viaggiare. - gli occhi le sorridevano.
- Tu e Ed siete fidanzati? - le chiesi, cercando di non sembrare indiscreta.
Rise forte: - Ma no figurati! Ed è mio fratello.
Stavo per risponderle, ma Tom mi precedette e disse soltanto: - Beh, Abby, è stato un piacere rivederti, ma ora dobbiamo proprio andare, grazie della chiacchierata. - la salutò baciandole lo zigomo.
La salutai con un gesto della mano e ci allontanammo, lasciandoci Abby alle spalle.

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