Two Oaks Motel

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Nello stesso esatto istante, alle nove in punto del 25 novembre 2015, la minuscola voglia color cenere sulla spalla sinistra di December Promwark era diventata bianca. Bianca come il latte.

Nessuno seppe mai il perché era avvenuto.
Si erano scambiate. Invertite. I due opposti avevano preso l'uno il posto dell'altro.
La voglia di June era diventata nera. Quella di December bianca.
Ma forse, era giusto così.

21.00.
Ci trovavamo nei pressi di Cleveland, nell'Ohio, sul Lago Eire.

Ancora non riuscivamo a crederci.
Era inspiegabile.
Era successo.
La pelle, dal bianco latte, era diventata nero cenere.
Io e Tom rimanemmo a bocca aperta.
Non aveva senso, andava oltre ogni logica.
- La voglia è... ? - mormorò Tom sconcertato.
- Diventata nera come la cenere. - conclusi io.
Rimasi in silenzio. Ero sconvolta. Non avevo mai visto niente di simile, sembrava qualcosa di talmente strano da essere magico.
- Come è possibile?
- Non ne ho idea. - sentii la pancia borbottare. - So solo che sto morendo di fame.
- Vuoi che ci fermiamo in un autogrill o McDonald's sulla strada?
- Ho bisogno di mangiare. E dormire in un letto. Ma soprattutto di dimenticare questi brutti sogni e non pensare alla faccenda della voglia. Questi incubi non mi fanno riposare bene e questo sedile così scomodo sicuramente non aiuta. - feci sedendomi, abbandonando la posizione raggomitolata in cui avevo dormito.
- Okay. Cerchiamo un B&B o un hotel.
Presto trovammo sul ciglio della strada, dove troneggiavano possenti due grandi querce, un cartello illuminato da una scarsa luce al neon verde: Two Oaks Motel.

- Benvenuti al Two Oaks Motel di Cleveland, gioiello dell'Ohio, desiderate una camera? - domandò cordialmente la signora anziana dai capelli argentei e dagli occhialini dorati poggiati delicatamente sul naso aquilino, dietro il bancone tutto impolverato della reception, una camera male illuminata, arredata con mobili degli anni '40, che avrei potuto trovare ad un qualsiasi mercatino dell'usato.
- Due camere. - risposi, cercando nello sguardo di Tom il suo consenso.
- Sono mortificata, ragazzi, ma ci è rimasta solo una camera matrimoniale. - fece la donna, che dal cartellino appuntato alla camicia a fiori di pizzo rosa pallido capii si chiamava Daisy.
Tom mi precedette e disse con sicurezza: - Va bene, allora prendiamo la camera matrimoniale.

Dopo aver preso la chiave della nostra stanza, ci dirigemmo verso il piccolo bar del motel, per mangiare qualcosa.
Era un locale buio, con lampadari dalla fioca luce calda che penzolavano sull'alto bancone verde tutto sporco di noccioline andate a male e gocce di superalcolici. Sulla parete a specchio dietro di esso alcune mensole reggevano bottiglie di whisky, rum, vodka e gin. I tavoli vuoti, le sedie e gli sgabelli sparsi confusamente per il bar, l'oscurità che ricopriva come un manto ogni cosa, tranne alcune perle di luce, proveniente dai lampadari, posata sui bordi dei bicchieri e delle bottiglie, davano un senso di desolazione e abbandono. Il barista alto e muscoloso, sulla cinquantina, rivestito di tatuaggi sulle braccia e sul collo, era appoggiato al bancone e fissava l'interno vuoto di un boccale di birra.
Solo un uomo, accasciato ad un tavolo, nell'angolo del locale, che beveva del vino, in silenzio.
Fissava fuori. La strada. Attraverso la finestra.
Presi un piatto di lasagne. Ero rimasta stupita, non credevo che in un posto simile cucinassero davvero. Mi sarei aspettata un panino surgelato o un pacchetto di patatine.
- Lasagne fatte in casa dalla signora Daisy, con le sue mani. - mi spiegò il barista.
- Grazie. - feci io.
Erano anche buone. Mangiai tutto molto in fretta, presa dalla fame.
Tom non ordinò niente, bevve solo un bicchiere di Coca-Cola.
- Ho finito. Andiamo in camera. - gli dissi.
- Va bene. - annuì lui, rivolgendo un ultimo e veloce sguardo verso il losco signore, al fondo del bar.

La camera era al secondo piano. Alle pareti una carta da parati scolorita e scrostata a motivi floreali che riprendeva lo stesso disegno delle lenzuola polverose del letto a molle.
La moquette marrone, che riportava macchie di caffè, salse, sughi e altre sostanze violacee e giallastre, ricopriva l'intero pavimento della piccola stanza, tranne quello del bagno subito sulla destra che era lastricato di mattonelle blu. Il letto matrimoniale era di ferro battuto e ai lati di esso si trovavano due comodini di legno, di cui uno era sorretto da tre gambe piuttosto che quattro, sui quali due piccole abat-jour illuminavano fiocamente la camera. Sopra il letto, appeso ad un chiodo, un crocifisso sovrastava sulla stanza.
Daisy ci aveva dato una chiave d'ottone con cui accedere alla stanza, la numero 13.
La porta aveva cigolato in modo sinistro quando l'avevamo aperta e avevamo dovuto forzare un po' la serratura per poter entrare.
- Che bel posticino. - disse Tom ironicamente. Poi, con tono più dolce e delicato: - È un problema stare nello stesso letto, per te?
- No, per niente. - sussurrai con sincerità.
- Bene. - posò lo zaino rosso sul letto. - Allora io vado a farmi una doccia, se sei stanca vai pure a letto.
- Sì, credo che andrò a riposarmi, ora.
E mentre Tom entrava in bagno per lavarsi, decisi di prendere una boccata d'aria e aprii la finestra per stare un po' sul balcone della camera. Per rinfrescarmi le idee.
Le stelle disegnavano costellazioni nel cielo e ognuna di esse mi ricordava a suo modo December. Nell'oscurità svettavano le due alte querce del Two Oaks Motel.
Eppure, in quella situazione di scombussolamento, subbuglio e caos mentale, non facevo altro che trovarci una pace immensa, di quelle che non avevo mai trovato nella mia routine quotidiana, monotona e noiosa. Nel cielo leggevo poesie di viaggio, felicità e solitudine. Immaginando December, chissà dove in quel momento, sotto quella stessa notte stellata, sotto quello stesso cielo. E mi sentivo, in qualche modo, più vicina a lei.
Una breve poesia, mi rimase impressa nella mente. Frasi che lessi nelle stelle. Forse mandate da December, forse scritte da lei, forse indirizzate a me. Non lo seppi mai. Ma capii, che nel suo eremo, nel suo viaggio in solitudine e riflessione, una ragione c'era. A me ancora sconosciuta.

Ho cercato casa in una grotta,
l'ho arredata di sogni e ricordi,
l'ho affrescata con i colori della notte.
La solitudine, non ha nulla a che fare con il silenzio, né con il vuoto.
Sono solo in cerca di qualcosa, che ancora non so,
ma viaggio da eremita e fuggo dal mio passato.
Alla ricerca di te.

Ritornai in camera e indossai il pigiama. Mi coricai e mi ripetei più e più volte nella mente le frasi.
E più mi dicevo in testa la poesia più mi convincevo che era lei.
December stava cercando qualcosa. Qualcosa che ancora non conosceva. Stava fuggendo dal suo passato. Da Tom. Da nostro padre. Da qualcosa che non vuole ricordare.

Mi giravo e rigiravo nel letto, senza trovare una posizione in cui dormire, sentendo le molle del letto cigolare rumorosamente ad ogni mio movimento, quando Tom uscì dal bagno in boxer, strofinandosi i capelli biondo cenere con un asciugamano.
Riuscivo a vedere nell'oscurità il contorno nero del suo fisico stupendo. Il suo corpo, le sue braccia, i suoi pettorali, le sue spalle, erano così forti, coraggiosi e possenti; sembrava scolpito nel marmo.
- Non dormi? - domandò Tom nel buio della stanza.
- Non ci riesco. - decisi di non dirgli della poesia di December nelle stelle, era già abbastanza sconvolto dal cambiamento improvviso della mia voglia e stanco dal viaggio.
L'unica fonte di luce della stanza era la sua abat-jour accesa, che creava un lieve alone di luce giallognola sul lato sinistro del letto. Lui occupò quell'alone di luce, quel cerchio giallo, e si coricò.
Lo vidi bene, questa volta. La sua pelle rosea, i suoi addominali, i suoi larghi boxer azzurri. Era bellissimo. Ma irraggiungibile. Nonostante fosse lì, a pochi centimetri da me, sapevo che quella piccola distanza era troppo invalicabile. Come un sottile muro di vetro.
- Sei tutta rigida, c'è qualcosa che non va? Davvero non è un problema se dormo qui? - fece lui, avvicinandosi ancora di più a me, tanto da poter sentire la fragranza del suo shampoo, al muschio bianco.
Mi accorsi solo a quel punto che indossavo semplicemente una canottiera di pizzo bianco e un paio di pantaloncini di cotone grigi. Avevo i capelli raccolti in uno chignon disordinatissimo, in parte sfuggiti all'elastico e quindi confusamente appoggiati sul cuscino.
Riuscii a balbettare: - N...no, va tutto bene... tranquillo.
- Okay. - mi accarezzò il braccio sinistro, e sentii un brivido lungo la schiena. - Allora, buonanotte.
- Buonanotte, Tom.
Nell'aria, la fragranza al muschio bianco e il suo respiro.
Chissà dov'era, December, in quel momento.
Sapevo solo che ero sempre più vicina a lei. Ne ero sicura.
E mentre, con il pensiero, seguivo December nel suo viaggio, il mio respiro, all'unisono con il suo, stava volando nel vento freddo dell'Ohio del nord, attraverso la finestra socchiusa del balcone, per raggiungere, forse, un qualche losco signore in un buio locale di un qualunque motel degli Stati Uniti o una qualsiasi ragazza senza tempo, in fuga dal suo passato e alla ricerca di qualcosa a lei ancora ignoto.

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