Il faro

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Tacqui. Non avevo parole per descrivere tutte le sensazioni, i dubbi, le emozioni, le voci contrastanti che fremevano nella mia mente, distruggendomi. All'improvviso, capii che, tutto quello che speravo, che immaginavo, non era altro che un meraviglioso e fragile castello di sabbia, ora buttato giù da un'onda troppo travolgente per essere placata. Non mi sentivo assolutamente meglio di prima. Ora che sapevo la verità, ero ancora più sopraffatta da domande, incertezze, paure. Credevo che, scoprendo il mio passato, avrei capito di più su me stessa. Avrei dato una risposta alle mie domande. Invece no. Stavo ancora peggio.
Vedevo i volti turbati di Tom e Luvinia che mi fissavano, che aspettavano che facessi qualcosa. Eppure stetti immobile, a fissare il focolare che scoppiettava. E mille pensieri vorticavano in quelle fiamme ardenti, come se fossero sospesi dentro di me, dentro il fuoco che bruciava nel mio petto. Non sapevo più chi ero. Mi sentivo in parte figlia, in parte orfana, in parte sorella, in parte un'ombra, insignificante, sola. Non sapevo più chi mi amava davvero. Se mia madre, che mi aveva mentito fino a quel momento, se mia sorella, che forse non sapeva nemmeno della mia esistenza, se mio padre, che non mi aveva mai cercata dopo la morte di mamma e mi aveva lasciata sola, se Tom. Non sapevo più dove sarei andata. Ero stanca di partire e di correre. Non sapevo più dove era la mia casa. New Orleans, Boston, Arland, Portland, o forse qui, a Molnes, insieme a mia zia, l'unica che mi era rimasta.
Mi sentii sola, come succedeva sempre a Boston. Senza nessuno a cui aggrapparmi, nemmeno a Tom. Nessuno poteva capirmi, nessuno poteva risollevarmi. Era la verità. La schiacciante verità. Ero io, era la mia storia. E nulla si poteva cambiare.
- June, stai bene? - mi domandò Luvinia, avvicinandosi a me e accarezzandomi delicatamente le spalle. - Come ti senti? Puoi parlarmene, se vuoi.
- Non sto bene. - riuscii a dire. - E non riesco ancora a darmi delle risposte.
- Risposte? Perché? - continuò, cercando di catturare il mio sguardo. - Perché vuoi delle risposte?
- Perché lo hanno fatto? - scoppiai, rigandomi il viso di lacrime amare. - Perché ci hanno mentito per tutto questo tempo?
- Per il vostro bene, June. Lo sai. - ripeté, riuscendo dopo numerosi tentativi a guardarmi negli occhi, nonostante cercassi di evitarlo.
- Hanno sbagliato.
- Sì, non era la cosa giusta da fare. - ammise, finalmente. - Ma credevano fosse meglio per voi.
- E perché non mi ha mai parlato di te? Perché non ti ho mai conosciuta? - insistetti, senza voler sentire ragioni.
- Perché sapeva che sarebbe stato meglio così, fino a che non saresti diventata abbastanza grande per capire.
- Per capire? Per capire cosa? Cosa c'è da capire? - continuai, sbraitando infuriata con me stessa, con mia madre, con mio padre, col mondo intero, col mio passato.
- Capire che la distanza, a volte, vince. Può allontanarci, può dividerci per anni. Finché gli anni non diventano vuoti incolmabili e silenzi, storie mai raccontate e ricordi che si sbiadiscono. - vidi scheletri rinchiusi negli armadi dei suoi occhi forse per anni dipingersi nelle sue oscure pupille. - Io e tua madre non ci siamo mai più riviste. Dopo quella volta a New Orleans.
- Cosa significa, Luvinia? Che io e December saremo per sempre separate dagli anni di lontananza? È questo che vuoi dire? - la incalzai, cercando di tirarle fuori le parole con la forza.
- No, vuol dire che dovete solo crederci. E non arrendervi mai. Vincerete la vostra battaglia, non commetterete gli stessi errori che abbiamo commesso io e tua madre. Ne sono certa.
- E se invece perdessimo? - gridai, straripante di rabbia e frustrazione. - Luvinia, rispondimi, ti prego! Perché ci ha separate? Lei sapeva cosa voleva dire stare lontane... - scoppiai, senza trattenermi più. - Lei lo sapeva... lo sapeva.
- Ha messo da parte le emozioni, i ricordi. Ha cercato di pensare razionalmente. Eppure, facendo questo, ha fatto l'errore più grande.
- E tu? Tu, che cosa hai fatto? - continuai, senza mollare la presa sui suoi occhi carichi di ombre e ricordi, fantasmi del passato che non se ne erano mai andati via davvero.
- Ho provato a farle cambiare idea, ma... Ormai, era troppo tardi.
- Troppo tardi. - ripetei, lentamente, scrivendo quelle due parole nella mia mente con l'inchiostro indelebile. - È sempre troppo tardi. Sempre troppo tardi. - gridai, fuori di senno, ormai accecata dalla rabbia, dal desiderio di tornare indietro per cambiare il passato. - No, non è mai troppo tardi, per cambiare le cose. Ma ora, ora non si può più tornare indietro. E io e mia sorella siamo come delle estranee, non siamo cresciute insieme, non ci conosciamo. Eppure avremmo potuto. Avremmo potuto avere così tanto. Avere un'infanzia insieme, un legame. Avere il nostro posto segreto, una nostra quercia. Avremmo potuto fare così tanto, insieme. Invece no. Non è mai successo.
- June, lo hai detto tu stessa. - spiegò, con estrema calma, tradita da un lieve tremolio delle dita mentre afferravano la tazza ricolma di tè ormai freddo.
- Cosa?
- Non è mai troppo tardi. - ripeté lentamente. - Non è così?
- Sì, lo so, ma...
- Ma puoi. Puoi farlo, se vuoi. - mi prese la mano e mi fissò dritta negli occhi, colma di speranza e di luce. - Devi trovarla June.
- Ci ho provato, ma è stato tutto inutile.
- Non è vero. Non lo è. - la luce che brillava nei suoi occhi divenne ancora più luminosa. - Senza saperlo, vi state cercando a vicenda. È una continua rincorsa, contro il tempo.
- Cosa... cosa stai dicendo? - balbettai, pensando di aver sentito male.
- È stata qui.
- December? - all'improvviso, la notte che era scesa su Molnes si rischiarò, come illuminata dal fascio di luce del faro che si ergeva in mezzo agli scogli, sulla costa.
- Sì. È venuta a Molnes una settimana fa. Credeva di riuscire a trovarti qui, o che avessi tue notizie.
- Lei... lei mi sta cercando? Sa chi sono? - farfugliai, incapace di crederci.
- Sì. Glielo ha detto George, diversi anni fa. Non riusciva più a trattenersi, soprattutto dopo la morte di Lilith. Ed è da molto tempo, ormai, che ti cerca, June.
- E dove è andata, ora? - finalmente riuscivo a vedere chiara e sicura la strada, la strada per la felicità.
- Non lo so. - si fermò, fissando la cartina appesa alla parete. - Ma credo che stesse cercando un posto chiamato casa.

La luce rosea che tingeva le nubi nel cielo del mattino sfumava in un tenue violetto e poi in un caldo arancione, creando una miscela di colori che veniva poi riflessa nello specchio d'acqua del mare. Dall'alto del faro, un vento gelido mi scompigliava i capelli e sollevava le onde, che si infrangevano impetuose sulla scogliera, innalzando spruzzi spumeggianti che raggiungevano perfino la ringhiera dalla quale ammiravo l'alba. Regnava il silenzio, intervallato dal suono docile e implacabile dello scontrarsi dell'acqua con la terra ferma. Mi sentivo immersa in quello spettacolo della natura, come in un dipinto, o in un acquerello. Ero un puntino minuscolo e insignificante, all'interno dell'opera d'arte. E mi mescolavo in altre migliaia di diverse tonalità e sfumature, diventando parte di un complesso molto più grande, di un tutt'uno molto più importante di quanto potessi aspettarmi. Mi stavo sciogliendo nel colore della luce, nell'acqua marina, nel grigio argenteo degli scogli, nelle pareti ricoperte di salsedine del faro, nella pace del semplice guardare l'orizzonte. Ero all'interno del dipinto, del quadro, parte integrante e centrale. Ero ferma, salda e ancorata alla vita. Vivevo, davvero. Ora più che mai.
- È un bel posto, per riflettere. - disse la voce di Luvinia alle mie spalle, cogliendomi di sorpresa.
- Luvinia, grazie per averci ospitati, questa notte.
- Non preoccuparti, è stato un piacere esserti di aiuto, June. E comunque, era da tempo che non parlavo con qualcuno.
- Ma come? E Lynwood? - domandai, ricordandomi improvvisamente la sensazione di qualcosa che non andava nello sguardo e nel comportamento di Luvinia, la sera prima.
- Lynwood... - mormorò, abbassando lo sguardo. - È morto.
- Oh... mi dispiace. - balbettai, imbarazzata. - Non c'è nessuno qui a Molnes con cui parlare?
- Beh, il norvegese non è molto facile da imparare e l'unico in grado di tirarmi su di morale è il mio vecchio Moon. - mi spiegò, cercando di nascondere gli occhi lucidi, illuminati dalla luce del mattino.
- Il gatto? - domandai, ricordando il morbido batuffolo di pelo bianco acciambellato sul divano.
- Sì, lo presi ad Åalesund, dopo la morte di Lilith.
- Mi mancherai, Luvinia. - ammisi, guardandola dritta negli occhi. E vidi, nel profondo di essi, un qualcosa di familiare, come di conosciuto. Come un riflesso, una sfumatura di me, o di qualcuno che conoscevo molto bene. Mia madre. Sì, rividi molto di lei, in Luvinia. E fu come riaverla accanto a me, per pochi istanti. Avrei voluto dirle così tante cose, farle così tante domande. Ma, dopotutto, sapevo che, l'avrei sempre potuta trovare dentro di me. E in Luvinia.
Forse, anche se non era tutto perfetto, mi bastava. Perché la felicità, compresi, è fatta di piccoli dettagli, di piccole sfumature. Bisogna solo essere in grado di coglierle.
- Puoi chiamarmi zia, June. Mi piacerebbe che mi considerassi tua zia, anche se non ci sono... sempre stata per te.
- Certo, - mi fermai prima di pronunciare il suo nome e mi corressi. - zia.
- Quindi, dove andrete, ora? - sospirò.
- Non lo sappiamo, ancora. - alzai lo sguardo verso l'orizzonte, più lucente che mai. - Ma sono sicura che presto saremo a casa.

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