- LUVINIA FINNEGAN?! - esclamammo all'unisono io e Peggie.
Hammond e la signorina Pemberton si voltarono verso di me nello stesso momento, come se per la prima volta da quando era iniziata la loro discussione si fossero accorti che ero presente.
- Sai chi è? - domandò Ham, in un sussurro leggero, tremando.
- Ne ho sentito parlare. Non la conosco. - i miei pensieri ritornarono alla conversazione con zia Imogen, alla fotografia riposta nel grembiule e ora nella mia borsa, al corridoio dei volti e a Molnes 6040.
- Luvinia Finnegan veniva con me al corso di francese. - disse piano Peggie, con la mente lontana, cercando di ricordare alcuni frammenti di memoria leggermente sbiaditi. - Ci siamo parlate una o due volte. Aveva una pronuncia impeccabile.
- Conobbi Luvinia al club di scacchi. Era una mente davvero brillante. Mi batteva ad ogni partita. - spiegò Hammond.
- Sì, ora che ci penso... mi ricordo di lei. Era quella ragazza con cui parlavi sempre dopo le lezioni, sotto quel vecchio albero davanti alla scuola, vero? Pranzavate sempre insieme. - mormorò Peggie.
- Sai qualcosa sulla sua famiglia? Aveva fratelli o... sorelle? - indagai con cautela, interrogando Hammond. Pensando a quell'uomo nella fotografia all'hotel. Charles Finnegan. E a mia madre. Lilith Finnegan.
- Diceva di essere sola. Stava da sua nonna Velma. Non mi ha mai raccontato nulla riguardo al resto della sua famiglia. - si interruppe, con lo sguardo lucido e perso. - "Non ho bisogno di nessuno" mi ripeteva sempre.
Mi riconobbi talmente tanto in quelle parole, come riflessa in uno specchio, come riflessa nel lucente medaglione dorato di Percival, che mi passarono in un batter di ciglia, tutte le immagini, i ricordi e le abitudini della mia vecchia vita. Fu come riguardare un vecchio dvd o una cassetta in bianco e nero. Era così petulante e triste. Ripensare a come ero prima, a come gli altri mi vedevano, a come io guardavo gli altri. Ripensare che io facevo parte di quella vecchia pellicola, ripensare che io ero solo una comparsa di tutta la registrazione. E si ripeteva, senza sosta, tutto il film, muto, in bianco e nero. Piatto, senza profondità o emozioni.
- Oh, Ham, non riesco proprio a crederci. - diceva, quasi tra sé e sé, la signorina Pemberton. - Hai lasciato Winnipeg per... Luvinia Finnegan. - disse quel nome con un disprezzo e una rabbia che non mi sarei mai aspettata dalla calma e composta Peggie Pemberton.
E Hammond, come se non la sentisse, mi domandava ancora: - Hai detto di averne sentito parlare? Da chi?
- Sua... nipote. - mi riferii a Imogen. - Ora vive in Norvegia, con suo marito Lynwood.
Alle mie ultime parole, il suo sguardo si rabbuiò di colpo.
Si voltò di scatto verso la strada di fronte a sé e riprese ad ignorare il blaterare di Peggie e il mio silenzio.
In quel glaciale attimo seguente, capii.
Tirai fuori un block-notes dalla mia borsa e scrissi poche righe. Piccoli e delicati pensieri che esplosero di getto dalla punta della penna e diventavano lettere, e poi parole, e infine frasi. E mi sentii immensamente libera. Libera di essere, di pensare, di scrivere. Libera di esprimermi.
Quando qualcuno si costruisce una nuova vita, con qualcuno che non sei tu, capisci che ha voltato pagina. O che ha cambiato completamente libro. E tu, invece, sei rimasto su una pagina bianca.Erano le undici in punto.
- Ci siamo quasi? - feci, come riemergendo da secoli di apnea, dopo ore che non aprivo bocca.
- Sì. - mi rispose Hammond. - Siamo a Funkley.
La strada, dritta e infinita, presentava ai lati non più di due o tre case. Il cielo era plumbeo, lastricato di pesanti e grigie nubi. Non nevicava, non pioveva, non soffiava un refolo di vento, sembrava che tutto si fosse fermato, che tutto aspettasse solo quel momento. Il momento in cui tutto raggiungeva il suo centro, il suo fulcro.
Parcheggiammo lo spazzaneve sul ciglio della strada e la jeep di Tom dietro di noi fece lo stesso.
Fuori si congelava. Era tutto velato da un'atmosfera di sogno, come se fossimo sospesi su un filo teso su uno strapiombo. Pareva che da un momento all'altro saremmo caduti in un limbo senza ritorno. Come se avessimo varcato il confine per entrare in una mondo parallelo, un mondo che respirava, un mondo che piangeva, un mondo vivo. Un mondo che aspettava solo il nostro arrivo.
Senza dire una parola, seguimmo tutti Yuki, che ci fece strada.
- Non so esattamente quale sia la casa. - parlava con foga, nervosa e agitata. - Mia madre l'aveva descritta una sola volta, in una sua lettera. Era...
Si fermò di colpo. Davanti a noi si ergeva una piccola casa bianca, circondata da un cortile semplice, privo di piante o ornamenti particolari. Era spoglia. La porta era in legno e sotto si trovava uno zerbino grigio, molto vecchio. Le finestre erano coperte dalle persiane chiuse.
- È questa. - disse in un sussurro quasi impercettibile.
Con estrema e inaspettata sicurezza, Yuki sollevò lo zerbino, sotto il quale si trovava una chiave argentata. La afferrò e la inserì nella serratura. Girò per tre volte e questa si aprì.
Nessuno osava parlare. Il silenzio era assordante.
La casa all'interno era gelida. Le pareti erano bianche, come i muri esterni. Ogni mobile, tappeto, cuscino o centimetro di pavimento era rivestito dalla polvere e dall'attesa. L'attesa di quell'istante, così fatale.
Ci trovavamo in una stanza semibuia, dove l'unica fonte di luce era costituita da una lampada al neon sul soffitto. A volte eravamo completamente immersi nel buio, altre volte la luce rischiarava la camera. Lo sfarfallio, perpetuo e insistente, della lampada generava un suono metallico che aumentava, secondo dopo secondo, la tensione palpabile nell'aria. La tensione che riaffiorava dai nostri sospiri e dal nostro silenzio. Sembrava completamente disabitata, lasciata andare. L'unico oggetto che sembrava vissuto era una coperta di lana, arrotolata disordinatamente sul divano in cuoio logoro.
In quel momento, un altro colpo metallico. La luce ci abbandonò e rimanemmo immersi nel buio.
Non appena la mia vista si abituò all'oscurità, riuscii a distinguere qualcosa, nelle tenebre. Esattamente là dove la coperta era stata raggomitolata, qualcosa si mosse.
No.
Non era qualcosa, era qualcuno.
La luce di colpo ritornò. Era quasi accecante.
Una donna dai capelli scuri e unti raccolti in una coda e dal volto scarno, pallido e smunto ansimò, da sotto il plaid. Era talmente piccola che quasi non mi ero accorta della sua presenza. Era una briciola, qualcosa che ormai aveva praticamente smesso di esistere. Sull'orlo della morte, dell'oblio.
- Mamma! - gridò Yuki, correndo verso la sagoma sul divano.
La donna non disse nulla, ma rispose con un gemito affannato, carico di dolore.
- Mamma, ti prego, rispondimi! - urlò Yuki, sempre più disperata, tra i singhiozzi.
- La... - pronunciò una voce rauca e sofferente. - La... medicina...
Yuki si guardò attorno, angosciata e impaurita. Afferrò con improvvisa velocità una scatola piena di pasticche appoggiata su un tavolino. Ne prese una e la diede alla madre.
Aveva il volto spaventato, di chi vede il proprio punto di riferimento scomparire, di chi vede ogni proprio appiglio sgretolarsi sotto di sé, per precipitare nel buio.
- Starai meglio, mamma, vedrai. - la rassicurò, piangendo.
Ma chiunque avrebbe capito che non lo sarebbe stata. Non sarebbe mai più stata bene. Il suo tempo era scaduto. Non si tornava più indietro.
Stava morendo.
Yuki era nel panico, ora era lei ad avere in mano la situazione, non dipendeva più da sua madre, o da suo padre, o da chiunque altro. Tutti contavano su di lei. Ma era troppo fragile, per reggere tutto quel peso.
- Yu... Yuki. - balbettò, con estrema fatica.
- Mamma. - singhiozzò lei, stringendola in un caldo abbraccio.
- Yuki, grazie. - riuscì a dire, con un tono talmente leggero da sembrare un sussurro del vento. - Non... preoccuparti per me. Sto... sto solo andando dall'altra parte. Sto iniziando un nuovo viaggio. - Natalee imitò un sorriso tirato, sofferto. - Uno di quei viaggi che ci piacciono tanto, ti ricordi? Uno di quei viaggi che ricorderai per sempre.
Il volto della madre era rigato dalle lacrime, che luccicavano sotto la lampada al neon. Yuki taceva e la fissava, senza distoglierle gli occhi di dosso nemmeno per un secondo.
Natalee, con immenso dolore, continuò: - È solo un'altra avventura... Ma tu devi andare avanti, Yuki, mi hai capito? La vita ti riserva così tanto, la vita ha ancora così tanto da darti... - mormorò, cercando di velare la sua voce frammentata di un tono rassicurante. - Ama, Yuki. Ama la vita, ama le persone, ama te stessa. Amati per ciò che sei. - prese un profondo respiro. - Acqua... A... Acqua.
La figlia prese un bicchiere pieno d'acqua appoggiato sul tavolino. E lo porse alla madre. Lei bevve un piccolo sorso e disse ancora: - Yuki, starai bene, vedrai.
- No, mamma, ti prego, non... - lei scuoteva il capo con insistenza, trattenendo col dorso della mano le lacrime che tentavano di uscire dai suo occhi, così bui e oscuri, dove sembrava che la luce stesse svanendo respiro dopo respiro.
- Ascoltami. - ansimò e la voce le tremò, fino ad incrinarsi in una cigolante lamentela. - Ama. Viaggia. Scopri il mondo. Sii chi vuoi. Vivi. Non ascoltare nessuno. Tu... tu puoi fare qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa, Yuki, hai capito? Se te lo metti in testa, puoi fare tutto. Non credere a quello che ti dirà tuo padre. Conosci nuove culture, nuova gente, nuovi modi di pensare. Ricordati chi sei veramente, non farti condizionare da nessuno. Tu... tu devi... devi solo essere felice. Essere felice. Mi hai capito? Fallo per me. Fallo per tua madre. Avrei tanto voluto vederti crescere, ma... Beh, ci siamo un po' perse di vista. Non sono stata una buona madre come avrei voluto. Non sono esattamente chi vorrei essere. - il viso era coperto di un'ombra che non se ne sarebbe mai andata via. - Ma ti amo. E farei qualsiasi cosa perché tu sia felice. Mi dispiace. Mi dispiace per tutto. Mi dispiace per tuo padre, mi dispiace per la mia assenza, mi dispiace per i genitori che non hai mai avuto davvero. Mi dispiace che siano andate così le cose. Ma non rimpiango la Keibunsha, l'incontro con tuo padre, il nostro amore. Non rimpiango te. Come potrei? Sei tutto ciò che di più bello mi ha dato la vita. Sei così forte, così coraggiosa e così diversa. Sei tu, e basta. E non devi mai essere nessun'altra. Devi solo essere Yuki. Ti chiedo questo. Sii la mia candida e dolce Yuki, la mia bella bambina internazionale, la mia determinata figlia. Quella che non si ferma di fronte a nulla, che attraversa confini e oceani per raggiungere quello che vuole. Quella che ha fatto così tanta strada, per rivedere per l'ultima volta sua madre. - la sua voce era disperata e inframmezzata di singhiozzi, rotta dal pianto. - Sono così fiera di te. Mi hai resa così felice, così felice di aver conosciuto una ragazza così buona e matura, così forte. Io... io me ne sto andando. Ma ci sarò sempre. Nei nostri ricordi, nella nostra casa di Kyoto, nelle nostre vecchie fotografie, nelle nostre infinite telefonate o lettere oltreoceano, nella nostra semplicità, nella nostra famiglia, nel tuo cuore. Io sarò lì con te, Yuki. Sempre. Viva o morta, veglierò su di te. Quando avrai bisogno di me, io sarò lì. Proprio lì. - indicò col dito scheletrico e bianco il petto di Yuki. - Ricorda chi sei. Ricorda che... Ricorda che l'amore, il vero amore, supera ogni ostacolo.
E se ne andò. Dietro di lei, rimase solo il suo corpo freddo, un silenzio glaciale e il buio. La lampada al neon si spense di colpo, al suo ultimo respiro.
Nessuno parlò. Echeggiavano nella stanza i singhiozzi di Yuki, piangente sul viso della madre.
La donna era ormai lontana. Dall'altra parte. Era lì, su quel divano di cuoio, sotto quella dannata coperta di lana, ancora bagnata di lacrime. Ma non c'era. Non era più lì. Aveva attraversato il baratro, il vuoto dell'oblio, quel limbo sconosciuto e ignoto, che ti portava sulla sponda opposta. Era iniziata una nuova avventura. Un nuovo inizio.
Edward si accovacciò vicino a Yuki e la strinse a sé, senza dire una parola.
Era morta.
Davanti a lei, davanti a sua figlia.
Come se l'avesse aspettata, per morire vicina a lei.
Come se sapesse che sarebbe arrivata, che sarebbe arrivata in tempo.
Prima che il tempo scadesse.
Tutto il paese, la strada infinita, il cielo plumbeo, le case solitarie. Tutto aspettava l'arrivo di Yuki.
Funkley, come sospesa su un filo, era caduta nel baratro. Insieme a Natalee.
Entrò nella stanza uno spiffero di vento attraverso la porta semiaperta.
C'era un forte odore di pioggia e di abbandono.
Natalee se n'era andata. Per sempre.
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Latte e Cenere
RomanceJune e December sono due gemelle, identiche. L'unico dettaglio che le distingue è una piccola voglia sulla spalla sinistra. Quella di June, bianca come il latte. Quella di December, nera come la cenere. Le due sorelle però sono destinate a cercars...