Il Bianco e il Nero

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Avevamo pranzato in un autogrill sulla strada. Ripartimmo subito e per il resto del viaggio gli unici suoni che aleggiarono nella jeep furono il vento che spirava forte dai finestrini spalancati e la musica alla radio o di qualche vecchio cd ante-guerra.
Eravamo usciti dallo stato del Massachusetts. Ancora non ci credevo. Avevo superato il confine, non solo del Paese, ma anche delle mie aspettative, delle mie paure, della mia realtà. Eravamo entrati nello stato del New York e avevamo da poco passato Albany.
C'era un'atmosfera di pace, qualcosa che non avevo mai provato.
Era bello viaggiare. Finalmente potevo dire di aver viaggiato. Perché poi alla fine è il viaggio quello che ti rimane dentro, il viaggio che ti spinge verso la meta, il tuo obiettivo. Perché è durante il viaggio che sperimenti la strada, l'attesa dell'arrivo, le emozioni del cammino, il cambiamento.
Erano circa le due del pomeriggio e quel senso immenso di completezza e felicità improvvisa mi fecero venir voglia di fare una dormita.
Mi accasciai sul sedile e chiusi lievemente gli occhi.

Il mare lambiva la sabbia bianca della battigia. Le onde erano dolci, il loro suono era una melodia. Un cielo nero, come la cenere, privo di luna e sole, oscurava e opprimeva la spiaggia. Una spiaggia la cui sabbia volava portata dal vento e creava disegni nell'aria, come dipinti, schizzi e affreschi nel cielo buio. E i disegni prendevano vita, come vere creature. Tutti, trasportati dalla corrente, salivano nella volta celeste oscura e, pian piano, scomparivano.
La sabbia era però raccolta in parte in un'enorme clessidra.
Ogni secondo era un granello. Un granello di sabbia che cadeva. Un granello di sabbia perduto, irrecuperabile, nel mare del tempo.
In lontananza, nel mare grigio, una figura.
Una figura candida, confusa.
Che camminava sull'acqua.
Aveva capelli scuri come quello stesso cielo. Che contrastavano con la pelle e l'abito.
Si avvicinava alla spiaggia.
Nel frattempo, ogni disegno, dipinto o quadro nel vento, svanì.
Il vento cessò di soffiare.
La sabbia ricadde sulla spiaggia come pioggia.
Mentre la clessidra continuava a segnare il tempo a ritmi regolari, secondo per secondo, minuto per minuto. Ogni granello, un secondo. Ogni secondo, un granello.
La legge del tempo.
Una ragazza senza tempo in un posto governato da esso. Dove ogni cosa indica il passare del tempo, e quanto esso sia effimero, e scorra via dalle nostre dita come sabbia. Una ragazza senza tempo, fuggita da un posto troppo simile a lei. Fuggita da un luogo senza tempo, bloccato in un limbo di non ritorno. Troppo lontano dal resto del mondo.
La figura si stava avvicinando. Era bagnata dell'acqua del mare. I capelli, le ricadevano lunghissimi sulle spalle. E le coprivano il viso, nascosto.
Stava per uscire dall'acqua.
Il cielo nero era sempre più opprimente e schiacciava la sabbia bianca.
Sembrava quasi di poterlo toccare, ma non ci riuscivi mai.
Il nero del cielo e il bianco della sabbia non si potevano sfiorare.
I due opposti. Il nero e il bianco. Il bianco e il nero. Intoccabili. Non si sarebbero mai raggiunti.
Il mare separava il cielo dalla terra, e mai avrebbe permesso che infrangessero quella divisione.
La clessidra continuava a scandire il tempo, che scorreva come un fiume, come il vento, come qualcosa di imprevedibile e incontrollabile, qualcosa che non potrà mai tornare indietro.
Rimanevano pochi granelli nella clessidra.
La ragazza era vicinissima. Riuscivo a vedere, attraverso i lunghi capelli scuri, le sue candide spalle, prive di macchie, ma pure e bianche come il latte. Camminava sulla spiaggia e ogni punto della sabbia che toccava, svaniva. E la spiaggia bianca, a mano a mano, diventava nera.
Il nero ricopriva tutto, dal cielo, completamente buio, alla sabbia che si trasformava in un baratro in cui, senza accorgermene, scivolavo anch'io.
Stavo sprofondando in quel mare nero e feci giusto in tempo per vedere l'ultimo granello di sabbia cadere nella clessidra.

Mi svegliai di soprassalto, tutta sudata e stanca.
Era già buio.
Ho dormito così tanto?
Eppure ero ancora assonnata e volevo ancora dormire.
Non ricordavo il sogno che avevo appena fatto, sapevo soltanto che centrava con December.
- Hey, tutto okay? - mi chiese apprensivo Tom, accarezzandomi la spalla sinistra, dove mi accorsi solo in quel momento che la voglia mi bruciava incredibilmente. - Nel sonno non la smettevi di chiamare December.
- Più o meno. - dissi strofinandomi gli occhi, che non volevano aprirsi. - Chiamavo December? Ho fatto un incubo, ma non ricordo nulla. - risposi, guardandomi la voglia bianca, che continuava a bruciare.
- Ti fa male? - si preoccupò.
- Sì, ma... non capisco proprio...
Poi.
Successe.
All'improvviso.
Non seppi mai come.
Ma accadde.
E riuscii a vederlo.
Con i miei occhi.
E pure Tom lo vide.
Successe.
All'improvviso.
La voglia.
La mia voglia.
La mia voglia sulla spalla sinistra.
La mia voglia bianca.
Che è sempre stata bianca.
Bianca come il latte.

Divenne nera.
Nera come la cenere.

Latte e CenereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora