Volti immortali

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La musica aleggiava nella jeep. Fuori faceva freddo, una nebbia sottile ricopriva i palazzi della città di Kennewick, nello stato del Washington. Era l'ora di pranzo. Ormai era da un paio d'ore che eravamo in viaggio, così facemmo una veloce sosta per mangiare.
- Ho una gran fame! - esclamò Abby dal sedile posteriore.
- Pure io! - continuai.
Uscimmo dalla jeep e ci dirigemmo verso una piccola tavola calda sulla strada. Era tutta in legno, vecchia e con un'insegna in metallo arrugginito che riportava a caratteri cubitali il nome: Mortimer's. Entrammo e ci accolse subito con grande euforia un grosso cane dal pelo ispido, con lunghe gocce di bava appiccicaticcia che gli pendevano dalla bocca e numerose macchie beige sul manto candido. Da dietro il bancone, un vecchio signore con la pancia talmente rotonda e grossa da non stare nella maglietta macchiata di grasso e sugo, lo ammonì con la sua voce roca e profonda: - Buck! Buck, lasciali stare, su! - mentre gridava sputacchiava sul bancone.
Il cane si allontanò rattristato e se ne tornò in quella che sembrava la sua cuccia, una cesta di vimini con sopra una logora coperta tutta rattoppata e puzzolente.
Mi accorsi solo allora, guardandomi attorno, che il locale era vuoto. Solo l'uomo grasso dietro al bancone e quel cane bavoso.
- Allora, - disse con tono fin troppo informale nella sua grezza voce da cavernicolo. - cosa volete?
Ed, con un po' di coraggio, gli rispose: - Vorremmo pranzare, è possibile?
- Oh, sì. Vi posso offrire solo della pizza riscaldata nel microonde e dei panini surgelati.
Titubante, Tom acconsentì, nonostante l'idea di mangiare cibo surgelato non entusiasmasse nessuno di noi, era sempre meglio che non pranzare affatto.
Ci sedemmo ad uno dei tavoli, quello meno sudicio e sporco.
Mangiammo dei panini insipidi e lasciammo in fretta la tavola calda.
- Quei sandwich erano disgustosi. - commentò aspramente Tom.
- Mi si rivolta lo stomaco al solo pensiero. - concordò Ed.
Risalimmo nella jeep e continuammo il nostro viaggio.

13.36.
Connell, Washington.
Era una giornata fredda e stanca, le nuvole erano un sipario nel cielo che copriva tutto dalla luce del sole.
Dominava il silenzio nella jeep. Tom guidava, Abby si rigirava tra le dita un medaglione d'oro che portava al collo e Edward studiava una macchina fotografica. Non me ne intendevo molto di fotografia, ma sapevo che quella era una Reflex.
- È una Nikon? - domandò Tom, rivolto a Ed.
- Sì. Mi sono appassionato molto alla fotografia in questi ultimi anni. Ho seguito un corso e ora non mi separo mai dalla mia amata Reflex. Adoro immortalare persone, sguardi, luoghi, natura, colori, tramonti, il mare. L'ho comprata cinque anni fa, quando eravamo andati a Edimburgo per fare visita ai nonni. - concluse, stringendo fra le mani la tracolla della macchina fotografica.
- La fotografia è qualcosa di spettacolare. Permette che tutto rimanga lì, immobile. Per sempre. Non fuggiranno mai, quei soggetti, dall'immagine. Le cose cambiano, ma nella foto, tutto è immutabile. È qualcosa che non tornerà mai, quell'attimo, quel sorriso, quello sguardo, quella luce e quei colori nella foto. Non saranno mai più possibili. Non si può tornare indietro, non ci sono seconde possibilità. Ma ci saranno nuovi momenti da catturare, nuovi volti da ricordare, nuovi soli da veder sorgere e nuove onde che si imbatteranno, senza sosta, sulla spiaggia e sulla scogliera. - intervenne Abby, scrutando fuori dal finestrino il movimento delle nubi grigie che si ingrossavano.
- È vero. Tutto cambia, tutto è in costante rinnovamento. - confermai, pensando alla fotografia di papà e December, quel lontano 3 dicembre del 2010, al Voyageurs National Park, dove loro non sarebbero mai invecchiati, non si sarebbero mai staccati da quell'abbraccio, non avrebbero mai smesso di sorridere di fronte a quell'obbiettivo, non avrebbero mai visto le ombre della vita oscurare i loro volti. - Ma la fotografia, resta, impressa con un semplice e banale click, nella memoria. Mentre tutto attorno a lei cresce, muore, rinasce. Lei vive, immortale, nel tempo.
- È sorprendente. - continuò Ed, tirando fuori dalla macchina fotografica la memory card. - È tutto racchiuso qui. Ogni istante, soffio di vento, carezza, onda del mare, granello di sabbia, sguardo. Tutto nella nostra memoria.
- Anche io, una volta, passavo giornate intere a fotografare quello che mi circondava. Trovavo conforto nella mia Canon. Credevo di poter vivere attaccato all'obbiettivo, ma presto mi resi conto che non potevo continuare a rifugiarmi in quel mondo parallelo che mi ero costruito. Avevo la mia dimensione, fatta di eternità, di semplici scatti che diventavano creature viventi e immortali, il mio mondo. Potevo sceglierlo. In bianco e nero, a colori, seppia. Potevo scegliere ogni cosa. Potevo cambiar prospettiva, avvicinarmi alle persone o alle cose, allontanarmi, scegliere il momento giusto per scattare. - ci raccontò Tom, con le mani sul volante e lo sguardo concentrato sulla strada, ma la mente lontana. - Poi, riemersi da quel sogno. Capii che il mondo vero, che si nascondeva dietro i colori, era in realtà tutto grigio. Ma dovevo accettarlo. E imparare a vivere. Anche se questo avesse significato dover abbandonare tutto quello che avevo creato e lasciare una volta per tutte la mia salvezza, la mia cura dalla monotonia quotidiana, ma, allo stesso tempo, la mia condanna. La mia macchina fotografica.
- Dipendevi da lei, non è così? - gli chiesi.
- Vivevo per quel mondo immaginario. Per quel mondo fatto di costanza, lontano dal cambiamento. Vivevo per sognare e per dimenticare che, in realtà, la vita, pian piano, si stava staccando da me. Mi stavo solo rifugiando in qualcosa che non ci sarebbe mai stato. Il mondo della mia mente.
Abby, che nel frattempo aveva tirato fuori dalla borsa una fotografia, sussurrò, sul punto di piangere: - Ti ricordi, Tom? Questo eri tu. E qui c'eravamo io e Ed. Vorrei... vorrei poter tornare indietro. Vorrei poter cambiare le cose... o, forse, che le cose non fossero mai cambiate. Vorrei che il tempo si fermasse, anche se per poco, e... Fermarmi. Col tempo. - si interruppe e chiuse gli occhi, come se, riaprendoli, potesse ritornare a quel lontano giorno di maggio. - La musica. La potete sentire? Il giradischi che andava. Quella festa. Tutti che ballavano, fuori. Il cielo stellato. E la menzogna, sì, la menzogna che sarebbe sempre stato così. Quel cielo, quella musica, quei sorrisi, quelle voci. Nulla sarebbe cambiato. Non facevamo altro che mentire a noi stessi, e a credere che saremmo sempre stati felici. Come quel giorno. E aspettiamo. Aspettiamo che il tempo passi e che arrivi il momento di essere felici. Ma continuiamo ad aspettare, anche se non arriverà mai. Perché la felicità non ci viene incontro, dobbiamo andarle noi incontro. Dobbiamo smettere di aspettare. Dobbiamo vivere. Vivere, non per qualcun altro, non per rifugiarci nei nostri sogni, non per ricordare il passato e nemmeno per dimenticarlo. Ma vivere. Vivere, e basta.
- Posso vederla? - chiesi.
- Certo. - tirò su col naso e mi porse la fotografia.
Erano Tom, Ed e Abby, in un prato. Alcune lanterne volanti fluttuavano nel cielo notturno. Loro sorridevano, erano felici. Molta gente, che ballava.
- È bellissima. - dissi, girandomi per porgere ad Abby la fotografia, e, notando il medaglione d'oro che portava al collo aperto e raffigurante due volti, domandai: - Chi sono?
- Mia madre e mio padre. - si rigirò fra le dita la catenella luccicante del medaglione.
- Magnolia e... Raymund, giusto? - chiesi cercando di rammentare il racconto di zia Imogen.
- Esatto, ma... Come lo sai? - sbottò Ed.
- Io e Imogen abbiamo fatto una bella chiacchierata. - sorrisi, al pensiero della carta da parati piena di ritratti della famiglia Clark. - Sei molto affezionata a loro, vero?
- Sì. Mi mancano tanto. Tre anni fa decisero di andare a vivere nella casa natale di mia madre. In Scozia. Le mancava tanto il suo paese e aveva sempre odiato la vita caotica di Worcester. Così, e ritornarono a Edimburgo. Non ci vediamo da tre anni. È tantissimo tempo. Troppo tempo. Però, ci scriviamo ogni giorno e ho sempre loro notizie. Hanno una vita tranquilla, abitano in campagna. Siamo lontani, ma... in qualche modo, sono qui. - Abby appoggiò il palmo della mano contro il petto, sull'immagine dei suoi genitori. - Così, porto sempre al collo questo medaglione. E loro sono sempre con me, mi seguono ovunque vada. Mi aiutano quando sono in difficoltà. - lo richiuse con delicatezza.
Pensai a quanto era stupendo. Avere qualcuno, qualcuno impresso nel cuore, su una fotografia in un medaglione d'oro da portare sempre al collo, qualcuno che senta la tua mancanza, qualcuno che ti venga a cercare, qualcuno che sorrida quando ti vede, qualcuno che pianga quando sei triste, qualcuno che pensi a te quando guarda il cielo, qualcuno che ti ami.
Avevo imparato ad amare. Ad amare December, ad amare Tom, ad amare mio padre. A stupirmi di qualsiasi cosa, di un sorriso, di una fotografia, di uno sguardo, di un sogno, di una lacrima. A tirar fuori tutta la mia anima, senza aver paura di essere giudicata. A ricordare, anche se faceva male. A ricordare mia madre, la sua voce, la sua dolcezza, la sua risata. A dimenticare, anche se era difficile. A dimenticare la mia solitudine, la mia voragine, per riempirla di luce. Avevo imparato a vedere, nelle persone, nelle cose, nella vita, anche quando era tutto oscuro, una piccola, forse
insignificante, ma comunque luminosa, scintilla di speranza. Avevo imparato a essere felice.

Avevo una fitta allo stomaco. Mi doleva tremendamente la pancia e sentivo dei conati di vomito. La bile acida e il sapore di quei panini disgustosi mi stava tornando su per la gola.
- Non mi sento bene. - dissi piano, massaggiandomi l'addome.
- Lì, nella tasca dello zaino, dovrebbero esserci dei sacchetti. - mi indicò la borsa rossa sotto i miei piedi. Mi chinai e estrassi da una delle tasche esterne un sacchetto di plastica. Odiavo dover rimettere. Era così snervante e fastidioso. Nel frattempo, Ed e Abby erano entrambi appoggiati al finestrino e sonnecchiavano leggermente.
Vomitai nel sacchetto di plastica. Fu terribile.
- Ci fermiamo un attimo? Vuoi prendere una boccata d'aria fresca? - mi chiese.
Annuii.
Ci fermammo in uno slargo di ghiaia, dove uscii dalla jeep e potei respirare aria pulita. Eppure ancora quella sensazione di acido in bocca e il gusto rancido dei panini. Vomitai ancora, senza sosta, tutto il pranzo.
- Stai bene?
No. Non stavo bene. Una nausea terribile mi faceva venire il capogiro, una fitta mi perforava lo stomaco e un'improvvisa stanchezza mi stava richiudendo gli occhi. Il grigiore delle nuvole non offuscava solo il cielo, ma anche la mia vista. Abby e Ed erano rimasti nella jeep, ancora addormentati. Tom era in piedi, di fronte a me, preoccupato. Mi fissava, e cercava di decifrare nel mio sguardo una risposta. Non gli dissi niente, però. Mi mancavano le forze. Non riuscii mai a capire come successe, ma, mentre piano piano crollavo sul suolo accidentato della ghiaia e dei cocci, le gambe mi cedevano e la testa mi si reclinava, l'oscurità ebbe la meglio su di me. E caddi, nel buio.

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