Il filo rosso

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Waffles. Nell'umidità del Wisconsin, nel freddo di Arland e nel suo glaciale silenzio, alcuni waffles, bagnati di pioggia, non più caldi, con un laghetto di sciroppo e acqua piovana sul fondo del piattino, appoggiato sul davanzale di una casa. Era una sorta di baita, quasi un piccolo ranch in stile Far West, con veranda, tetto di legno, esattamente come i muri e un vecchio olmo nodoso vicino all'ingresso.
Quella era la casa di Tom. Come l'avevo sempre immaginata. Semplice casa di campagna. Vissuta, amata, odiata, abbandonata. Sì, abbandonata. Vuota.
Mi ero però soffermata su un piccolo particolare. Quei waffles. Appoggiati sul davanzale. Quel puntino lontano, dall'altro lato della strada.
Uscii velocemente dalla jeep. Corsi fuori e attraversai rapidamente la strada. Arrivai alla casa di Tom, davanti al suo davanzale.
Poi, sentendo i passi di Tom avvicinarsi, da dietro: - È qui.
- Dobbiamo trovarla.
Era quello, il segno. La prova che era tornata. December era ad Arland. Ne ero certa.
Ero agitata, emozionata, impaurita. Avrei finalmente scoperto il mio passato, rivisto mia sorella, me stessa, nei suoi occhi, i miei occhi. Avrei trovato quello che da tempo ormai cercavo invano. L'amore. L'amore vero, che superava ogni ostacolo, ogni distanza, ogni differenza, ogni uguaglianza, ogni litigio o momento difficile. Lei. Lei, in qualche modo, mi avrebbe salvata. Mi avrebbe risollevata dalla mia voragine, mi avrebbe permesso di imparare ad amare, amare gli altri, amare me stessa, conoscere me stessa, essere felice, essere libera e, forse, volare. Volare insieme a lei, lontana dal mondo, dagli umani, dai dolori e dalle sofferenze terrestri, dalla distruzione, dalla guerra, quella di ogni giorno, quella delle piccole cose, dal vuoto che conservavo dentro di me e che ormai era parte integrante di me.
Ero stanca. Stanca di dover fare una scelta, e prendere quella sbagliata. Sempre.
Volevo mantenere la mia promessa, e l'avevo infranta. Volevo non affezionarmi più a nessuno, ed era arrivato Tom, a sconvolgere la mia vita. Volevo amare, e mi ero innamorata della persona sbagliata. Volevo chiudere con il mio passato per poter cicatrizzare una volta per tutte le mie ferite, e le avevo riaperte una ad una con la lama affilata di un coltello, per soffrire ancora. Ancora di più.
- Vieni, ti faccio vedere la mia casa.
Annuii.
Avevo bisogno di stare in un posto caldo, riposare e rifocillarmi. Ero stanca.
Tom conservava ancora le chiavi della porta di casa.
La aprì.
Scricchiolò leggermente e cigolarono i cardini. Erano anni che non veniva aperta.
Ragnatele, polvere e alcuni insetti avevano ricoperto i mobili.
- Immagino tu voglia riposare, prima di andare a cercarla. La mia stanza è in fondo al corridoio a destra. Io dormirò sul divano.
- Va bene. Grazie.
Faceva freddo, ma non solo in casa e fuori, anche tra di noi, spirava un vento gelido. Da brividi.

La sua stanza era composta da un letto singolo, sotto ad una finestra che dava sulla strada, un piccolo armadio in rovere e un comodino, di fianco al letto. Delle tende di lino blu non lasciavano trapassare nemmeno un filo di luce e il buio regnava sulla camera. L'oscurità, come la polvere e il tempo, che aveva ingiallito le pagine di alcuni libri ammassati sull'unica mensola nella stanza, aveva ammantato ogni cosa, come un sottile velo che, leggermente, quasi sulle punte, ricopriva tutto e ne occultava le apparenze. Accesi il lampadario, composto da una lampadina in una boccia di vetro pendente dal soffitto. Quella era la sua stanza. Dove aveva vissuto momenti felici, momenti tristi, momenti di solitudine, momenti di abbandono, rassegnazione, delusione, gioia, paura, dove aveva pianto, urlato, riflettuto a lungo, dove si era nascosto e trovato un rifugio, dove aveva scritto le pagine del suo diario, disegnato, riguardato foto, ripensato a lei. Dove aveva consumato lacrime, parole, sorrisi, frasi, poesie, acquerelli, memorie di vita e di vecchie polaroid, con il pensiero fisso e costante di lei. December. Lei c'era e ci sarebbe sempre stata. Lei c'era nelle sue lenzuola azzurre, nel suo davanzale ogni mattina, nel suo sorriso, nei suoi capelli biondi, nel pavimento scricchiolante della sua stanza, nei cardini sconnessi della porta di ingresso, nell'olmo fuori casa e nell'altalena appesa ad esso, nella strada infinita di Arland, nei campi circostanti, nelle sue vecchie fotografie, nelle pagine del suo diario, nei suoi disegni, nei suoi pensieri, nei suoi ricordi, nel telaio cristallizzato e intagliato nel ghiaccio di un fiocco di neve in una giornata di dicembre, in un quadrifoglio scovato nei prati sterminati vicino a casa, nel suo profumo di fiori, nel rumore della pioggia, nella jeep, nella sua calligrafia precisa e ordinata, nel Thompson Park, nel freddo del Wisconsin, nelle iridi blu di Abby e nei suoi capelli del colore del grano, nel mio riflesso davanti allo specchio, nelle mie mani affusolate, nei miei difetti, nei miei vizi, nei miei pregi, nella mia costellazione di lentiggini, nei miei sogni, nel mio cuore, negli occhi di Tom. Nella mia voragine. Nella sua. Nel vuoto incolmabile che conteneva entrambi. Lei era lì. In quella terra di mezzo, dove era sempre stata. Ci era sempre stata, non se ne era mai andata. Anche se fuggiva, scappava, lei rimaneva, comunque, nonostante tutto, in quel maledetto posto senza tempo. Arland.

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