Quando mi svegliai fui baciata da una luce biancastra che proveniva dalla finestra. Aprii piano gli occhi, ancora chiusi leggermente dal sonno. Tom sembrava stesse ancora dormendo.
Capii subito, appena guardai il bosco oltre la vetrata, perché la luce era così fredda e bianca: fuori nevicava senza sosta, alzando lo strato di neve di almeno un metro e mezzo. La bufera infuriava, gelida e potente, piegando gli alberi del bosco e ammantando ogni cosa sotto una candida coltre di neve.
In quell'esatto istante, per la prima volta da quando aveva cominciato a nevicare, mi pervase la paura e il presentimento di non poter raggiungere il Voyageurs National Park. Con quella tempesta di neve e le strade bloccate sarebbe stato impossibile.
Non seppi cosa fare, così mi alzai e incollai lo sguardo alla finestra. Oltre il vetro, la foresta era un intrico di rami bianchi e ghiacciati.
- Ciao. - disse la voce di Tom alle mie spalle.
- La bufera. - dissi soltanto, le dita appiccicate al vetro freddo. - Non possiamo partire.
Tom sbadigliò e tossì.
Il rumore dei suoi passi che mi si avvicinavano sempre di più.
- June, non andare nel panico, okay? Andrà tutto bene. Fra poco la tempesta di neve si placherà, arriva lo spazzaneve e entro qualche ora saremo di nuovo in viaggio. - mi massaggiò delicatamente le spalle. - Fidati di me.Il caffè caldo fumava dalla tazza in porcellana. Le dita fredde, avvolte attorno alle pareti di essa, ricevevano il piacevole tepore della bevanda al suo interno. Tremavo, forse per via della
paura di non poter raggiungere December e mio padre, o forse per via del gelo e del vento freddo proveniente dalla porta nella hall che si apriva e chiudeva ogni minuto lasciando entrare gelidi spifferi e fiocchi di neve. Aprii una bustina di zucchero e rovesciai i bianchi granelli nel caffè, che li inghiottì lentamente.
- Non si fermerà. - continuavo a dire. - La bufera è troppo forte.
E le parole aleggiavano per pochi istanti nell'aria fredda e poi, volavano via. Come sospinte da uno zefiro freddo invernale, da un fiocco di neve caduto per caso sul cappotto di un nuovo ospite dell'albergo, come sprofondate nel caffè bollente, come evaporate nelle nuvolette di calore sopra le tazze fumanti, come cancellate dalla potenza della bufera. Le parole erano abbandonate lì, nel silenzio. Nessuno parlava, nessuno rispondeva. Mi sentivo sola e stanca. Ingabbiata là dentro. Come se non potessi più uscire da quel maledetto hotel.
Abigail sorseggiava piano e ammutolita la sua tisana alle erbe, concentrandosi sul liquido verdastro nella tazza, come se il resto non esistesse. Edward non beveva, non mangiava, non parlava. Era come assente, fissava la neve precipitare inesorabilmente fuori dalle vetrate della sala ristorante. Tom, invece, era l'unico che sembrava essere presente. Che mi vedeva. Che mi ascoltava.
- June, aspetta. Abbi pazienza. Finirà, prima o poi. - mormorò, finendo il suo caffè amaro.
Mi ripetei nella mente quelle assordanti parole. Prima o poi. Prima o poi. Galleggiavano nella mia testa, mi balenavano negli occhi, sentivo voci che le gridavano nelle mie orecchie.
All'improvviso pensai che non sarei mai potuta scappare. Che sarei rimasta per sempre lì, in quell'albergo nel Minnesota, inghiottito dalla neve e immerso nel vuoto di qualcosa che non aveva più voglia di vivere. Pensai che presto sarei caduta anche io, con la neve.
- La... la signorina Promwalk, presumo... - disse una voce alle mie spalle.
- Promwark. - scandii, voltandomi verso la donna mingherlina dai capelli scuri. - Mi chiamo June Promwark, Octavia.
- Sì, ecco... - sembrava fosse ritornata la solita receptionist timida e insicura, che avesse messo da parte tutto il coraggio e la decisione della sera prima. - Il signor direttore vuole... vuole vederla.
- Percival? - domandai.
- Sì, è nel suo studio.
Senza dire una sola parola a Abby e Ed, rivolgendo solo un veloce sguardo a Tom, mi alzai e seguii Octavia fino allo studio di Percival.
Era seduto alla scrivania, composto e sorridente, come la prima volta che lo avevo visto.
- June, che bello rivederti! - esclamò, gentile. - Grazie Octavia, puoi andare.
Mentre lei se ne andava, mi accomodai sulla poltrona di pelle nera, dove mi ero seduta la sera prima.
- Allora, June... scusami se ti ho disturbata di nuovo. - mi disse, appoggiando i gomiti sulla scrivania e riordinando alcune scartoffie. - Ma, vedi... Ieri notte sono stato molto scortese... e volevo scusarmi con te.
- Non si preoccupi, Percival...
- Oh, ti prego, non darmi del lei. Noi siamo amici, giusto June? - mi sorrise. - Io e tuo padre lo eravamo, e tu me lo ricordi così tanto. Così legati alla vita, all'amore. Aggrappati, come ad una montagna a strapiombo sul vuoto. - si fermò improvvisamente, come se volesse cambiare argomento, forse per non mostrarsi vulnerabile come la sera prima. - Beh, June, ho sbagliato tante volte. E ora che mi sono corretto, che ho capito... Non voglio cadere un'altra volta. Non posso.
- Capisco, Percival. - non sapevo esattamente cosa dire.
- Insomma, vorresti dimenticare la faccenda di ieri sera? Sono mortificato. Ti sarei davvero grato se ricominciassimo da capo.
- Certo, con grande piacere. - ricambiai il sorriso.
- Allora... vorrei proporre a te e ai tuoi amici di fare un giro di sotto, alle piscine, oppure alle serre. Là è bellissimo, soprattutto in inverno, quando sei circondato da piante esotiche, ma oltre il vetro c'è la neve. - fece una breve pausa, cogliendo il mio sguardo perplesso e interrogativo. - Con questo tempaccio ne dubito che potrete partire entro domani mattina e se non avete niente di meglio da fare, là potrete godervi un po' di sano riposo. - mi allungò un depliant che raffigurava un enorme piscina e una grande serra.
- Entro domani mattina? Non possiamo aspettare così tanto. Non... non... - balbettai.
Rimasi immobile, con il depliant in mano e la delusione nello sguardo.
Non saremmo partiti. Non avrei raggiunto December e mio padre. Domani mattina, sarebbe stato troppo tardi. Era tutto volato via. Tutto scivolato via dalle mie mani come sabbia, come neve, come acqua. Tutto talmente veloce, inafferrabile e frenetico. Tutto così confuso.
- June, la bufera è implacabile. Queste tempeste di neve durano per giorni o... in casi estremi, anche settimane. Mi dispiace, ma siete bloccati qui, che vi piaccia o no. - sospirò.
Avevo finito le parole. Non sapevo se gridare, affogarmi nelle piscine sul depliant, soffocarmi per via del nodo in gola che ormai da diversi minuti mi strozzava.
Era come una prigione, come una gabbia. Quella stanza buia, l'albergo avvolto dalla neve, nessuna via di scampo.
Bloccati lì.
Ora December e mio padre sembravano irraggiungibili, così improvvisamente distanti e impossibili.I colibrì svolazzavano tra i baobab e i caschi di banane, circa cinque metri più su di dove mi trovavo io. Ero coricata sul prato, circondata da ibischi, palme e fontane punteggiate di ninfee e piante acquatiche. Ero sola nella serra, nascosta da un grosso cespuglio, meravigliata dalla bellezza di quel posto, che contrapposto al paesaggio bianco e freddo che si stendeva al di là del vetro era molto più lussureggiante e colorato. Tutto risplendeva di luce, di verde, di vita. I pistilli dei fiori, le noci di cocco delle palme, gli zampilli delle fontane lucenti, i tronchi contorti e nodosi dei baobab, il verdeggiante intrico di rami e foglie che davano origine ad una vera e propria foresta pluviale: ogni cosa vibrava di calore, di mondi lontani mai visitati, di paesaggi del sud, di avventura, di colore. Intanto la neve continuava incessantemente a cadere, creando una cortina candida che mi nascondeva nel mio mondo surreale, in quella serra quasi magica, che riusciva a trasportarmi lontana dal freddo del Minnesota, lontana dal gelo della mia vita, lontana da ogni delusione, lontana da ogni mia voragine.
Avevo pianto tanto. Ora, però, mi ero tranquillizzata e mi ero lasciata trasportare dai colori della serra. Cercavo di dimenticare ogni lacrima amara, ogni pensiero buio. Di svuotare la mente.
Stringevo fra le mani una copia di un libro molto vecchio, di una scrittrice alquanto sconosciuta di origine svedese. Poco dopo aver lasciato lo studio del direttore, infatti, Octavia mi aveva gentilmente prestato quel libro per distrarmi un po' e far scorrere il tempo più velocemente, ma non riuscivo proprio a concentrarmi nella lettura.
Non sapevo che cosa avessero fatto Tom, Abby e Ed. Ma non volevo saperlo.
Volevo soltanto stare un po' da sola, e smetterla di preoccuparmi per gli altri, quando loro non si interessavano nemmeno minimamente a me.
Poi, sentii dei passi echeggiare nella serra.
Si avvicinavano sempre di più.
Credevo si trattasse di Tom, di Abby, di Ed, o forse di Percival.
Poco dopo, vidi un caschetto scuro e un corpo affusolato. Pensai fosse Octavia, ma quando le vidi il volto capii che era una ragazza sconosciuta.
Il viso era caratterizzato dai lineamenti orientali, dagli occhi a mandorla, da labbra sottili e zigomi molto pronunciati. Aveva probabilmente la mia età. Era molto bella. Sembrava distratta, assorta nei suoi pensieri. Mi ritrovai molto in lei, dispersa, forse, un po' lontana da tutto il resto.
Attraverso i rami del cespuglio dietro cui ero nascosta vidi che si sedette su una panchina. Era immobile, fissava il nulla. Poi, il viso rilassato si contorse in una smorfia di dolore e vidi che stava piangendo.
- Ciao. - mormorai piano, rialzandomi dal mio nascondiglio e avvicinandomi a lei. - Stai bene?
Singhiozzò e annuì.
- Ne sei sicura? - insistetti.
Pianse più forte, ma non mi rispose.
- Vuoi che mi sieda qui?
Continuò a non rispondermi, lacrimando.
- Oh, allora... io vado. - sussurrai con dolcezza.
Aspettai pochi secondi una risposta, ma non arrivò.
Così, piano piano, mi allontanai.
Feci pochi passi, poi la udii per la prima volta, la sua voce delicata come un soffio di vento, fredda come la neve e calda come un raggio di sole primaverile.
- Sì. - disse sottile alle mie spalle. - Puoi sederti qui.
Mi girai e vidi che si era asciugata le lacrime. Sembrava si fosse ricomposta.
La raggiunsi e mi sedetti di fianco a lei.
- Ciao. - ripetei. - Come ti chiami?
- Yuki. - bisbigliò tra i singhiozzi. - Tu sei?
- Mi chiamo June. - mi interruppi, osservando i suoi occhi neri straripanti di lacrime. - Che cosa ti è successo?
Rimase immobile per qualche minuto. Poi, molto lentamente, si voltò verso di me.
Aveva gli occhi talmente carichi di emozione, di luce spenta e tristezza che mi sembrava di vedervi riflessa una voragine simile alla mia e a quella di Tom.
In quelle pupille profonde, mi immersi. E capii, affogandoci dentro, che, alla fine, le voragini di ognuno di noi, non sono poi così diverse. Tutti, prima o poi, affronteremo il vuoto. Tutti, vedremo il buio. Tutti, dovremo perderci nell'oblio.
- La vuoi sentire, la mia storia?
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Latte e Cenere
RomanceJune e December sono due gemelle, identiche. L'unico dettaglio che le distingue è una piccola voglia sulla spalla sinistra. Quella di June, bianca come il latte. Quella di December, nera come la cenere. Le due sorelle però sono destinate a cercars...