Neve e ricordi

15 3 0
                                    

Era il primo dicembre. Me ne resi conto solo nel pomeriggio, quando Abby tirò fuori la sua agenda per appuntare qualche pensiero o avvenimento. Fuori si congelava. Il cielo era candido e opaco, come velato da un'atmosfera surreale, di sogno.
Nell'aria tutto sembrava richiamare, sussurrare, cantare, inneggiare, proclamare dicembre. December. L'inverno, il freddo, la brina sui fili d'erba sul ciglio della strada, i batuffoli bianchi di vapore dei nostri respiri, le sciarpe e i berretti di lana, alcune canzoni serene e timide alla radio. Dicembre. Tutto gridava dicembre. Era lì, lei era nel vento, nella strada ghiacciata, nel cielo bianco, nella mia voglia nera, nel silenzio, nella musica.
Il primo giorno di dicembre.
Mancavano due giorni. Due giorni al loro incontro al Voyageurs National Park.
Percorrevamo l'autostrada nel mezzo del Dakota del Nord, nei pressi di Bismarck, quando, dal cielo pallido, cominciò a cadere la neve. Soffici, candidi, minuscoli fiocchi di neve ammantavano tutto attorno. Era mozzafiato. Un incanto di ghiaccio.
La neve. Un tempo, mi faceva pensare al Natale; al mio compleanno; agli inverni passati con mamma in campagna, ad ammirare le discese bianche delle colline mentre scendevamo con la slitta fino alla valle; al focolare acceso; ai guanti morbidi di lana; ai maglioni caldi; alle pantofole comode; alle cioccolate calde e ai pomeriggi a fare pupazzi di neve o a leggere un libro sul divano sotto una coperta, quando ero piccola. Ora, invece, la neve significava solo l'arrivo di un nuovo freddo inverno, di un altro compleanno sola, di un Natale passato per la medesima volta senza alcun regalo, di un glaciale silenzio, che, come quei sottili fiocchi, cadeva attorno a me. Mi cancellava, mi immobilizzava, mi congelava, mi ammutoliva, mi sotterrava. La neve era come una sorta di amore e odio. Da quando mia madre se n'era andata, era solo un'ulteriore ricordo che mi assillava, che non mi dava pace. E quindi, cominciai a detestarla. Sì, non potevo farne a meno, era uno spettacolo meraviglioso, ma freddo, glaciale, ghiacciato, immobile. Come il suo corpo la mattina in cui morì. Una coltre gelida, come l'oblio. Come qualcosa di ignoto, che mi attirava, ma mi spaventava. La neve, congelava tutto attorno a sé, sgretolandomi sotto la sua forza e la sua potenza, come la cenere, come qualcosa di talmente fragile da poter essere schiacciata con una mano. La neve mi incantava, ma la odiavo. Era la memoria della mia solitudine, l'arrivo di mille ricordi che mi avrebbero solo spezzata di più. La neve era un timido canto, un fragile, ma indistruttibile silenzio. Era il vento, il gelo, la musica, l'arte, la perfezione, il cristallo del tempo. C'era ogni cosa, c'era tutto. Era perfetta. La neve era l'amore.
La neve era un candido e silenzioso bacio, un bacio sulle labbra del vento, sulle guance delle montagne, sugli occhi del cielo, sulle mani della terra.
La neve era perfetta.
Forse, era per quello che la odiavo così tanto.

Si era fatto buio. La neve infuriava fuori.
Eravamo arrivati nel Minnesota, a Moorhead.
La jeep fortunatamente era provvista di gomme adatte a terreni accidentati, ma lo strato candido che rivestiva l'autostrada era sempre più spesso. Andavamo a rilento, le auto non si muovevano.
- Non possiamo andare avanti così. - commentò Abby, sbuffando.
- La bufera è troppo forte, Tom, meglio fermarci. - la appoggiò Ed. - Ripartiamo domani mattina. Ora, con il buio e la neve, è impossibile proseguire.
- Va bene. Troviamo un posto dove stare la notte, sono stanco. E domani mattina ripartiamo. - accettò Tom.

L'albergo era lussuosissimo. Di fronte all'ingresso due cipressi potati e tagliati a creare forme eleganti e raffinate ci accolsero, per condurci, seguendo il tappeto rosso, alla porta in vetro. Nella hall una donna vestita interamente di rosa, con un piccolo chihuahua nella borsetta luccicante e un'immensa quantità di bagagli in un carrello dorato squittiva arrabbiata contro la receptionist dietro il bancone: - Io avevo chiesto la cena in camera! Non esigo aspettare! Non vede come il mio povero Puppy muore di fame? Vuole i suoi croccantini, per le sette in punto! E guardi: sono le otto e mezzo! Non posso tollerare una simile insolenza! - piagnucolò e strillò nella sala, agitando i suoi bracciali argentati che tintinnavano sulle sue braccia grasse.
- Signorina Pemberton... Le avevo già detto che noi non serviamo il servizio in camera... Sono mortificata... Se solo potesse accomodarsi nella sala ristorante, noi... potremmo... - balbettò la donna mingherlina dai capelli scuri.
- No! Basta! Me ne vado! Io e Puppy abbiamo già sopportato abbastanza! - e fece dietrofront, ondeggiando di gran carriera con i suoi vestiti di seta, pelliccia e velluto, le sue collane di perle, la sua borsetta sotto braccio contenente il piccolo Puppy e il facchino al seguito, che portava il carrello ricolmo di bagagli.
Trattenni a stento una risata dalla scena.
Ci incamminammo verso il bancone della reception, ora vuoto, per poter chiedere una camera.
- Scusate... la... la signorina Pemberton sa essere un po'... brusca, a volte... - mormorò la donna. - Dunque. Volete una camera? Avete prenotato? - si riassestò.
Abby rispose: - Non abbiamo prenotato. Vorremmo una camera per quattro, grazie.
- Una camera da quattro... - fece controllando al computer la disponibilità delle camere. - Mi dispiace, ma ci rimangono solo due camere matrimoniali. - si scusò.
- Oh, non c'è problema, andrà benissimo. - la rassicurò Abby.
- Allora... ecco le vostre chiavi... la 102 e la 97. Se doveste ancora cenare la sala ristorante è di là. - indicò un corridoio alla nostra destra. - Oh, e... abbiamo anche una piscina, al piano inferiore... Sapete, molti dei nostri clienti passano ore nell'idromassaggio! Le vostre stanze sono al terzo piano. Buon soggiorno.
- Grazie. - rispondemmo in coro, e ci dirigemmo verso la sala ristorante.

Latte e CenereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora