Sogno e Realtà

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- Ed starà bene, Abby. - ripeté per la milionesima volta Tom.
- Lo so, Tom. Ma è un momento delicato per Yuki. E... forse, beh, sarei dovuta rimanere là con lui, per aiutarlo...
- Abby, Edward saprà badare a se stesso. Non preoccuparti.
Nella jeep, io, Tom e Abby, continuavamo a pensare a quello che era accaduto poco prima.
Natalee era morta. Yuki aveva preferito rimanere a Funkley per un po' a riflettere e Edward aveva deciso di restarle vicino.
Davanti a noi, nello spazzaneve, ci aprivano la strada Hammond e Peggie.
Erano le 11.34.
Mi restavano ventisei minuti.
Ventisei minuti.
- Tom, potresti andare un po' più veloce? - non mi trattenni dal chiedergli. - Non arriveremo mai in tempo.
- Faccio quello che posso, June. - sussurrò Tom, con gli occhi fissi sulla strada.

11.43.
Diciassette minuti.
Ci trovavamo nei pressi di Big Falls, ancora piuttosto lontani dal Voyageurs National Park.
Nella mia mente vedevo franare ogni singola speranza, ogni castello immaginario che mi ero costruita, ogni bagliore di luce si spegneva nei miei occhi, minuto per minuto.
Non saremmo mai arrivati in tempo.
Non avrei mai visto December. Mio padre.
Non avrei mai avuto una famiglia.
Tutto si stava sgretolando sotto i miei piedi, come sabbia nel vento, come pasticcini o briciole di pane. Tutto se ne stava andando, lentamente, sotto i miei occhi.
Mi sembrava di rivivere la morte di mia madre. Il momento in cui tutto scompariva, in cui tutto cessava di essere importante, perché in realtà nulla era davvero importante. C'era solo mia madre, per me, in quel momento. Come c'era solo Natalee, per Yuki. Come, ora, c'erano solo mio padre e December, nella mia mente. Nient'altro. Esisteva solo il Voyageurs National Park, il mio sogno, il Rainy Lake e la mia nuova famiglia.
Qualcosa, dentro di me, forse un presentimento, una cupa ombra di paura e rassegnazione, si stava protendendo sempre di più su di me. Cancellando ogni stella cadente nella mia anima.

11.50.
Dieci minuti.
Eravamo quasi arrivati a Littlefork. Eravamo ancora lontani.
Sentivo gli occhi pieni di lacrime, ma mi imposi di non piangere.
Non dovevo farlo.
Dovevo resistere.
Non piangere.
Il cielo, rivestito di pesanti nuvoloni grigi, sembrava promettere pioggia e mi schiacciava sotto la sua forza. Sotto la forza di qualcosa di imprevedibile. Di incontrollabile.

11.56.
Quattro minuti.
Littlefork.
Ormai pregavo il tempo che non scorresse. Che si fermasse, solo per un po'.
Non sentivo più gli occhi bagnati di lacrime, ma solo una irresistibile voglia di sfogarmi, di rompere qualcosa, di bruciare qualcosa.
Se non fosse stato per quei maledetti panini alla tavola calda, il mio vomito, la bufera di neve, il mio incontro con Yuki, la nostra sosta a Funkley... Allora, forse, saremmo arrivati in tempo.
Era solo colpa mia.
Dipendeva tutto da me.
Non avrei mai conosciuto mia sorella e mio padre.
E sarei rimasta per sempre corrosa dai rimorsi.
Era tutta colpa mia.

12.00.
No. Non poteva essere.
Era svanita, nel nulla. Anche la mia più minuscola speranza era svanita.
Restava solo quel numero.
Quell'ora.
12.00.
Avrei voluto riavvolgere il tempo, cambiare le cose.
Ma era tutto inutile, tutto talmente sciocco.
Senza accorgermene, mi abbandonai alla stanchezza e alla frustrazione, addormentandomi.

- June! June, svegliati!
- Mh... che... che cosa? - biascicai, stiracchiandomi e aprendo gli occhi.
Fu esattamente come me l'ero immaginato.
Fu come il mio sogno.
Tutto combaciava.
Eravamo sulla jeep. Io e Tom. Una strada. Dritta e infinita. Ma non come quella di Arland. No, era diversa. E faceva più freddo.
Un bosco di latifoglie, conifere e acqua. Tanta acqua. Laghi, isole, fiumi. Era meraviglioso.
Una musica lontana e impercettibile.
Velocità. Andavamo velocissimi.
Poi, eccolo lì.
In legno.
Una scritta chiara, a caratteri cubitali.
Di fianco lo stemma di un'aquila che planava su un bosco e sulle montagne. Con dietro una falce di luna.
National Park Service.
I parchi degli Stati Uniti ce lo avevano sempre quel simbolo, quel marchio.
Nel frattempo, aceri, abeti, pini, betulle e mirtilli, lamponi e fragoline di bosco, scorrevano fuori dai finestrini.
E immensi, sterminati, specchi d'acqua cristallina scivolavano di fronte a noi, intervallati da isolette, scogli, rocce e qualche lupo, alce o castoro lontano sulle rive pietrose del Lago Rainy.
E riuscii, senza sapere come, quasi avessi la mappa stampata in testa, a riconoscere la Little American Island, la Dryweed Island e la Surveyor's Island.
Il cielo era tappezzato di nubi bianche.
No, forse non erano le nuvole ad essere candide.
Era qualcos'altro, che imbiancava il cielo.
La neve.
Cadeva a grandi fiocchi, e ammantava gli alberi, i laghi, il pelo bruno degli orsi grizzly e le penne delle anatre negli stagni.
Era tutto così perfetto.
Perfetto.
Stranamente e morbosamente perfetto.
Troppo perfetto.
Talmente perfetto, talmente incredibile per essere vero, che ci credetti.
Ci credetti per un po'.
Finché non mi accorsi che, dietro, sui sedili posteriori, mancava Abby.
"Sono i dettagli, June, che rendono la realtà quella che è" mi rimbombò nella mente questa frase.
Me lo diceva sempre mia madre, quando mi svegliavo dopo un brutto sogno.
Mi chiedeva di analizzare l'incubo con precisione, di provare a ricordare i più minuziosi particolari.
E, piano piano, capivo che c'era qualcosa di sbagliato.
Che non poteva essere vero, reale.
Qualcosa non quadrava, c'era una falla nel sistema.
L'errore nella perfezione del subconscio.
L'errore, la macchia.
Era qualcosa di già successo. Qualcosa di rivisto.
Ci misi un po', a convincermi.
Era troppo bello per essere vero.
Troppo familiare.
Troppo irrealizzabile.
Era tutto un meraviglioso, candido e falso sogno.

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