Stelle cadenti

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Quando mi svegliai, fuori pioveva. Sentivo il ticchettio delle gocce sulle finestre.
Erano le 9.43.
Tom, da dietro la porta: - June, sveglia! Dobbiamo andare!
Sbadigliando, riuscii a dire: - Sì, mi alzo... va bene.
Mi sollevai dal letto controvoglia e mi vestii velocemente, ancora con gli occhi chiusi dal sonno.
Raggiunsi Tom in cucina, dove stava bevendo del caffè amaro, in piedi, appoggiato al bancone.
- Vuoi qualcosa per colazione? - fece lui, sciacquando la tazza nel lavandino, dopo aver finito gli ultimi sorsi.
- Niente, grazie. Non ho fame. - mormorai.
- Dovremo percorrere quasi 3.000 chilometri. Sarà un viaggio molto più impegnativo. - mi avvisò, segnando col dito il tragitto che congiungeva Arland a Portland sulla mappa. - E nel frattempo... cercheremo di capire dove si trova il luogo della fotografia. - concluse mostrando l'immagine di December e papà.
- A proposito, - mi intromisi nei suoi pensieri, rammentando finalmente il sogno di quella notte. - so dove si incontreranno. Il 3 dicembre.
- Davvero?
- Voyageurs National Park. Nel Minnesota. Vicino a International Falls, al confine col Canada.
- Come hai fatto a scoprirlo?
- In sogno. Ho sognato quel posto. Era un paesaggio identico a quello nella fotografia e c'era un cartello... Poi la guida turistica sul comodino di December... Il segno sulla pagina di International Falls... - sembrava non riuscisse a credermi. - Fidati di me, Tom. È stata lei, lei ci vuole aiutare.
- Lei chi? December?
- Sì. Lei mi manda messaggi, parole, immagini. Comunichiamo.
- E credi che... Il sogno... Insomma, fosse lei?
- Era lei, Tom. Ti prego, credimi.
- Ti credo, June. Ti credo.

Era mezzogiorno, quando arrivammo a Saint Cloud, nel Minnesota. Facemmo una veloce sosta, per fare rifornimenti di benzina e mangiare.
Nel frattempo, aveva cominciato a tuonare, piovere forte e le nubi plumbee ricoprivano il cielo. Temporale.
Stringevo fra le mani la lettera, la ragione per cui stavamo facendo quel viaggio folle, improvviso e senza senso. E la fotografia di December e papà. Poi, quella di December e Abby, che avevo trovato dietro alla lettera. Era un'immagine di loro due, giovani, belle e allegre, in cima ad un albero. Il loro albero. Il loro vecchio fico nodoso, su cui avevano creato la loro casa, il loro rifugio. Tenevano in mano la mappa, la mappa dei sogni e delle infinite possibilità. Leggevo nel loro sguardo la voglia di crescere, di diventare qualcuno, di raggiungere i propri obiettivi.
Le gocce precipitavano obliquamente sul finestrino e io le seguivo con lo sguardo.
Ormai, mi ero abituata al viaggio. All'essere una nomade, in continuo movimento, senza una casa fissa. La jeep era diventata la mia nuova casa. O forse, e lo sapevo bene, ma non volevo ammetterlo, era Tom, la mia casa, la mia famiglia. E, presto, anche December, sarebbe entrata a farne parte.
La tempesta infuriava fuori.
- Tom, non mi hai mai detto dove sei nato. - gli dissi, giusto per parlare un po'.
- Sono di Richmond. La capitale della Virginia. Sono stato cresciuto in una grande città, nella confusione quotidiana, in una metropoli. Ho vissuto nel lusso sfrenato tutta la mia vita, nulla costava mai troppo, niente non si poteva fare. Tutto questo grazie all'azienda lasciataci in eredità da mio nonno Rupert, morto quando io ero solo un bambino. I miei genitori mi hanno sempre abituato ad una vita di sfarzo e vizi, ricca di movimento, dove i soldi erano sempre presenti. Ma io volevo qualcosa di diverso. Sognavo la campagna, le praterie sterminate dove poter correre e giocare, i boschi dove poter scoprire creature immaginarie e segreti mai svelati. Desideravo un mondo tutto mio, un mondo diverso, meno superficiale, a contatto con la vita vera e la natura. A otto anni, quando mia madre, Samantha, e mio padre, Osbourne, morirono in un terribile incidente, mia nonna Janet si prese cura di me. Fu allora che tutta l'eredità dell'azienda di mio nonno piombò su di me, anche se io, a quei tempi, non sapevo ancora che cosa farmene. Lei abitava in una piccola cittadina del Kentucky, sconosciuta, immersa nel bosco e nella campagna, affacciata sul Paintsville Lake. Oil Springs. Mi piaceva. Nei pomeriggi d'estate costruivo zattere sul fiume e giocavo a fare il pirata, mi immergevo nei boschi e creavo case sugli alberi. Poi, quando crebbi, viaggiai molto. Potevo, aveva tutto il denaro necessario e nessun posto era troppo lontano per me, ormai. Prima Saint Louis, poi Kansas City, e per finire Chicago. Qualche mese dopo che cominciai a vivere a Chicago, mi chiamò mio prozio Archie. Mi disse che aveva bisogno del mio aiuto nella sua fattoria, che avrei munto le mucche, nutrito i conigli, pulito i recinti, riordinato il fieno nelle balle e tosato le pecore. E che mi avrebbe dato una buona paga. Accettai. Mi allettava molto l'idea di vivere di nuovo a contatto con la natura, di tornare ai tempi in cui stavo con mia nonna Janet. Ma soprattutto l'idea di possedere soldi ottenuti con le mie mani, solo miei. Di avere un lavoro e non dipendere solo ed esclusivamente dalla mia famiglia. Così, mi trasferii. Archie abitava ad Arland. Fu in quel momento, che mi affezionai a quel posto, che mi costruii una casa tutta per me, che conobbi December. Da qui in poi, sai come è andata.
- Pensi mai a loro?
- Chi?
- Ai tuoi genitori? Ci pensi mai? Ti mancano?
- Sì. Ogni tanto penso alla voce di mia madre, quando mi chiamava perché era pronta la cena o quando uscivo da scuola e in mezzo alla folla di genitori mi cercava. O a mio padre, quando mi prendeva in braccio e credevo di essere un aeroplano. - guardava un punto preciso, lontano, inesistente, come per aggrapparcisi. Fissava il vuoto. È sempre così, pensai, quando si perde qualcuno che si ama. - Tu? A tua madre? Ci pensi?
- Spesso la notte ci penso. Mi chiedo come sarebbe stato se fosse rimasta. Mi manca l'idea, sai? L'idea di una madre. L'idea di qualcuno che ti stia vicino sempre, qualunque cosa accada. L'idea di un suo abbraccio, del pronunciare la parola "mamma", della sua voce, di un suo sguardo. Mi manca lei, i suoi occhi sinceri, il suo sorriso rassicurante, le sue braccia accoglienti. La sua gentilezza, la serenità che trasmetteva. Lei era come l'alba. Luminosa, chiara, calda, radiosa. La amavo. E l'ho vista morire. - sussurravo quelle parole per la prima volta. Non avevo mai avuto il coraggio di ammettere la mia fragilità, la nostalgia e la malinconia che mia madre aveva lasciato sul suo letto vuoto, il freddo nella casa senza di lei, il gelo che era rimasto nel mio cuore e nella mia vita, l'eco delle mie grida nello strapiombo della mia mente. E ora, avevo tirato fuori tutto, riaperto tutte le ferite, con forza e sofferenza, con energia e delicatezza allo stesso tempo. Amavo mia madre. L'amavo veramente. E il ricordo, il pensiero di lei, sgusciò via da me sotto forma di lacrima.
- L'anima è piena di stelle cadenti. - mormorò in modo quasi impercettibile.
- Cosa hai detto? - dissi tra i leggeri singhiozzi.
- L'anima è piena di stelle cadenti. È una frase di Victor Hugo. Non l'ho mai capita appieno, non l'ho mai sentita abbastanza mia per comprenderne il significato, ma ora, ora sento di averne trovato un senso. Il ricordo di tua madre, la memoria dei miei genitori, di mia nonna Janet, il pensiero di quello che è successo con December, sono tutte stelle cadenti. Meravigliosi frammenti di vita passata, brandelli della nostra esistenza carichi di emozione, di sofferenza, ma, soprattutto, di amore. Perché le stelle cadenti sono la dimostrazione che si può essere bellissimi, anche quando si cade, si precipita. E anche se il pensiero di tua madre o dei miei genitori ci distrugge, è un ricordo meraviglioso. È vero. Quello che amiamo, ci uccide. Io amo December, e ogni notte, ogni singola notte, mi chiedo perché sono così sbagliato. Perché lei è scappata da me, perché se n'è andata. - sentivo mia ogni parola che Tom stava dicendo. Ero io. Io stavo morendo per lui, come lui stava morendo per December. Come io ero morta quando mia madre se n'era andata. Eravamo solo, e lo capii in quell'esatto istante, implacabili, fragili, incandescenti, vuote, sbagliate, meravigliose, stelle cadenti.
- Com'è, June, desiderare di fuggire sempre? Come ti senti? Ti senti inadeguato, perso, insignificante? - parlava con foga e disperazione, senza lucidità, gesticolando e con lo sguardo distante.
- Sì. Ti senti perduto. Non hai via di scampo. L'unica via d'uscita è scappare. Non puoi fare altrimenti. - le lacrime si erano asciugate da sole, ormai, e un lieve sorriso sbucò fra le mie labbra. - Sembra che venga molto bene a noi Promwark, a quanto pare. Io, però, non ne sono mai stata in grado. Ci ho provato, sì. Ma, mollare tutto, mai. Non ce l'ho mai fatta.
- Io non credo di aver mai provato quella sensazione. Sì, il sentirmi inadeguato e sbagliato, sì. Ma non ho mai desiderato di fuggire, scappare, farla finita con la mia vita, insomma.
- E tua nonna? Lei, com'era? Ti manca anche lei? - feci per cambiare discorso.
- Lei era un tesoro. Sempre coi suoi occhialini dorati, i suoi capelli bianchi intrecciati, i suoi vestiti a fiori, il profumo di stufato in casa. Lo ricordo ancora, come fosse ieri. Mi manca molto. - accese la radio, forse perché era troppo difficile parlarne per lui.
Nell'aria, una vecchia canzone. Let It Be. Dei Beatles.
E rimasero, nel freddo delle tempesta, durante quel viaggio fatto di lacrime e stelle cadenti, parole, parole di speranza e di amore.

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