Capitolo trentaquattro

1K 68 8
                                    

Il piccolo albergo in cui ci siamo stanziate, è appena fuori città. Lontano dai grattacieli, le industrie, la borsa o i grandi uffici, ma non dista troppo dal lago, ogni mattina andiamo a magiare sul prato, distendendoci sopra ad un telo supine, a guadare le nuvole e mangiare sandwich da quattro soldi, mentre i nostri piedi giocano felici con i fili d'erba.

L'ultima volta che ho fatto campeggio, è stato con mio fratello Cal e mio padre. Mia madre è rimasta nella nostra casa, con tutti i confort che essa aveva da offrire, era troppo per lei riscaldare hot-dog con il fuoco e mangiarli da un bastoncino di legno, mentre per noi era il weekend ideale, peccato che potevamo permettercelo solo quando nostro padre era libero, perciò una volta l'anno, forse due.

Quelli sono stati i momenti migliori e peggiori della mia vita.
Se durante la notte sentivo il verso di un orso, mio padre mi zittiva dicendomi che statisticamente impossibile che ci fosse un orso, così stringevo il peluche fra le braccia che paradossalmente, era a forma di orsacchiotto.
Non mi rassicurava abbastanza serrare gli occhi e stringere al petto il mio peluche, ma per fortuna c'era Cal.
Mio fratello aspettava che mio padre si addormentasse, altrimenti l'avrebbe sgridato per la sua fragilità e quando il vecchio iniziava a russare, Cal si voltava verso di me e mi avvinghiava a se, in mezzo a tutta quella carne.
Fin da bambino è stato un bambino paffuto, ma il più gentile e premuroso che conoscessi e non lo dico solo perché era mio fratello.

Adesso con Alex è il contrario.
Sono io che durante la notte l'abbraccio a me, portando la su testa in mezzo al mio petto, la sua mano nella mia, le nostre gambe si intrecciano l'un l'altra, riscaldando i nostri corpi freddi, per i pensieri tenebrosi che si aggirano nelle nostre menti.

Non posso dirle che ho paura, non posso nemmeno farle capire che ne ho, perché altrimenti crollerebbe. Le sue ultime speranze sono riposte sulle mie spalle, ed ogni giorno sento il peso di esse schiacciarmi a terra miseramente. Provo a trovare un appoggio su qualsiasi banalità, che può essere un suo sorriso, o una risata rumorosa.
Insomma mi faccio forza, per lei.

<Questi sandwich fanno sempre più schifo.> Constata Alex, portando il pane in alto, davanti ai suoi occhi.

<Già. Non so perché continuiamo a prenderli.> Dico, dando un altro morso e guardando il pane bruciato sui lati.

<Sempre meglio delle schifezze di qualche grande industria.> Fa spallucce Alex, accontentandosi infine del sandwich. Lo porta alla bocca, mangiando meccanicamente il pane abbrustolito.

<Quando torniamo a casa?> Le domando. Sono già tre giorni che siamo in questo albergo e nonostante sia rilassante passare del tempo fra i boschi, lontane dall'inquinamento, dalle voci troppo rumorose e la musica alta.
Però è tornato il momento di affrontare le cose e tornare alla nostra vita.

<Non lo so...> Abbassa la voce. Non vuole proprio tornare, ha paura che ci sia un'auto della polizia parcheggiata fuori casa nostra, pronta ad entrare in azione e riportarla a Litchfield.. Ma l'ansia non sarebbe necessaria, se avessimo fatto a modo mio.

Torniamo in camera, dopo aver fatto colazione sul prato puntellato da margherite e piccoli fiori rossi. Alcuni di questi, solo rimasti impigliati nei capelli di Alex e la rendono simile ad una proiezione celestiale.

<Non abbiamo più soldi..> Sbuffa la corvina, sedendosi pesantemente sul letto, il quale scricchiola sotto al suo sedere, come avvertimento di un possibile cedimento.

<Dobbiamo propio tornare a casa Alex.> Incrocio le braccia al petto e lascio penzolare la testa all'indietro, colpendo l'armadio di legno alle mie spalle.

<Lo so..> Sussurra, sfilandosi gli occhiali e con accuratezza preme i pollici sulle palpebre, come per scacciare via un brutto sogno, immergendosi nel buio.

Toc. Toc.
Qualcuno bussa. Potrebbe essere la cameriera.

Quando apro la porta, due uomini in giacca e cravatta stanziano davanti a me, con i loro sguardi attenti e le labbra serrata in una linea dura.
Non c'è bisogno di spostare lo sguardo sul distintivo scintillante che mette in mostra uno dei due, per capire che sono degli agenti di polizia.
Me li ricordo, quando vennero a casa mia, a disturbare la mia quiete. E lo stanno rifacendo, solo che stavolta, non sono qui per me.

<Dobbiamo portare Alex Vause in commissariato, dovrà rispondere a delle domande.> Esordisce l'uomo alle spalle del primo, passando avanti all'altro e cercando di sorpassarmi, ma istintivamente porto una mano sullo stipite, impedendoli di passare.

Il suo sguardo accusatorio ricade su di me e con estrema calma, dice

<Non mi faccia usare la forza.> I suoi occhi si strizzano in due fessure, a malapena riesco a vedere le sue pupille, ma è abbastanza per leggere l'odio dentro ai suoi occhi.

Crede che siamo delle criminali, o che almeno Alex lo è. Non è vero, vorrei urlargli che non è così, che si sbaglia.

Invece l'unica cosa che faccio è togliere il braccio di mezz'ora e portarlo dietro la schiena, lasciando che i due si accomodino nella piccola stanza rustica.

-----

Ciao a tutti. Mi dispiace ancora una volta per il ritardo, spero che possiate capire e che il capitolo vi piaccia.
A presto. Baci a tutti ❤️

Alex e Piper 2 Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora