Forse, dietro le sue spalle, ha chiuso anche tutto il resto del mondo.

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Nascondo uno sbadiglio mentre guardo le carte che ho tra le mani e mi concentro sul mio caso.
Una banale separazione consensuale, uno dei casi più semplici di cui un avvocato possa occuparsi, ma per me è così importante.
Importante perché finalmente questo è davvero un “mio” caso.
Un caso di cui mi occupo solo io e che sto concludendo dall'inizio, tra giudici ritardatari e sempre troppo impegnati e una coppia che litiga su tutto, persino su chi abbia il diritto di urlare più forte nelle mie orecchie.
“Il vaso cinese lo voglio io, avvocato” si allunga verso di me la moglie, con il suo cipiglio battagliero e i capelli così perfetti da farmi pensare che sia appena uscita dal parrucchiere: “Avvocato può metterlo per iscritto?”
Sorrido, prendo appunti e cerco di apparire professionale.
Un avvocato sa sempre mantenere la calma, mi ripeto e cerco di regolarizzare il respiro.
Anche quando i suoi clienti gli fanno richieste assurde. Anche quando vorresti dirgli che tu sei un avvocato e non un'addetta all'inventario.
“Lei vuole il vaso cinese” scrivo nei miei appunti e poi, mentre le mie doppie punte sembrano urlare vendetta e penso che mi serva assolutamente una settimana, anzi no meglio un mese, nel migliore centro estetico della città a fianco aggiungo un'altra nota: “Quando è stata l'ultima volta che ho fatto una ceretta?”
“Puoi tenerti quello stupido vaso. L'ho sempre odiato” risponde il marito che sfida la moglie con tono spavaldo.
“Come?” squittisce lei: “Dicevi sempre ti piaceva... Che era un tocco di classe”
“Fingevo” dice scrollando le spalle.
La vedo boccheggiare davanti alla sua ammissione e, prevedendo uno scontro, vorrei quasi tapparmi le orecchie.
“Sì, è vero” il tono sempre più alto: “Tu sei sempre stato bravissimo a fingere”
Mentre loro continuano a sfidarsi con colpi bassi che distruggono pezzettino per pezzetino la loro passata vita matrimoniale, ho come un'illuminazione e un sorriso di felicità si apre sul mio volto.
Sabato. Sono andata dall'estetista sabato e oggi è solo martedì. La mia ricrescita adesso è solo un problema lontano.
“Avvocato si ricordi di scriverlo: la casa al mare spetta a me” e questa è solo la milionesima volta che lui me lo ricorda.
Quasi quasi preferivo fare le fotocopie, penso mentre annuisco e sorrido conciliante al marito.
Un altro urlo scandalizzato della moglie e un altro sbadiglio che mi tocca reprimere.
I miei sbadigli, le occhiaie profonde e il sonno arretrato sono la prova della notte che ho passato insonne a girarmi e rigirarmi tra le mie lenzuola.
E, dopotutto, c'era da aspettarselo. Chi avrebbe potuto dormire dopo il messaggio che Leonardo mi ha inviato?
Al solo pensiero sento mancarmi il respiro.
“Da oggi sei mia” è la frase che continua a risuonare nella mia testa.
Sento la sua voce, bassa e roca, scandire queste parole.
Vedo lui, alto e imponente, che mi squadra, con le braccia incrociate sul petto e pronuncia queste parole.
Con il suo classico sorriso compiaciuto. E non posso fare a meno di tremare.
Tremare di agitazione. Tremare di eccitazione.
Calma Emma, mi ripeto, calma.
Stai lavorando. Concentrati sul caso.
Prima che questi due mi distruggano lo studio.
“Quindi ricapitolando” urlo quasi per interrompere i loro battibecchi: “oltre il patto che avevamo già concordato, alla signora andrà anche il vaso cinese e lei avrà la sua casa al mare”
“E non si dimentichi il cane, avvocato” dice la moglie.
Con la mano a mezz'aria guardo prima l'uno e poi l'altra.
Non mi avevamo mai parlato di un cane.
“Il cane?” domando quasi titubante e preoccupata. Se abbiamo perso mezz'ora per un vaso chissà quanto tempo perderemo per un cane.
“Sì” dice la donna: “io lo tengo tutta la settimana e lui il sabato e la domenica”
“E lo voglio già questo weekend” ribadisce il marito.
“Davvero?” Vorrei chiedere loro mentre un profondo senso di tristezza opprime il mio petto come un macigno: “Davvero dopo dieci anni di matrimonio il problema più grande è chi terrà il cane questo weekend? O quanto lui odi uno stupido vaso cinese?”
Perché l'amore, come tutte le altre cose del mondo, può anche finire ma perché deve finire così? Spartendosi ogni cosa e calpestando tutto, anche gli attimi di felicità, con lo stesso accanimento di un gruppo di avvoltoi affamati che si avventano su una carcassa?
Sono passate ore dall'incontro-scontro con la coppia e sto ancora sistemando il fascicolo. L'ufficio si sta svuotando e la segretaria è appena passata a dirmi che anche lei sta tornando a casa.
Ed ecco che, mentre sullo studio inizia a scendere una pace quasi surreale, senza il via vai di clienti, urla e telefoni che squillano come impazziti, sulla porta della mia stanza si profila lui.
È stata una giornata intesa per entrambi e ci siamo solo intravisti, io presa dalla coppia in via di separazione e lui tallonato dalle sue cause. Ora però che il mio sguardo si posa su di lui capisco quanto mi sia mancato.                            
Mi è mancato lui, il suo sorriso irresistibile, la sua presenza.
Persino le sue stupide battute.
E questo è un male, mi dico mentre lo guardo farsi spazio tra le carte che ingombrano la mia scrivania.
Non dovrei sentire la sua mancanza.
Dovrei ricordarmi che tra di noi è solo un gioco.
Un gioco forse troppo pericoloso per me e per il mio cuore.
“Ceniamo insieme?”
“E me lo chiedi? Non vedo l'ora ti mangiare la tua mitica pizza”
Una risata complice vibra tra di noi.
“Ok, sbrigati però perché sto morendo di fame”
Come il vento ci ritroviamo a sfrecciare per le strade affollate della città mentre la sua macchina si muove silenziosa e sicura nella notte.
Così concentrata su di lui, sul suo modo di guidare fluido ed elegante, indisturbato dal traffico che riempe Milano, e dalla sua voce che mi culla lontano, in un posto in cui non c'è stanchezza, casi irrisolvibili o amori finiti, mi rendo conto che siamo arrivati solo quando Leonardo ferma la macchina.
E che questa non la pizzeria in cui mi ha portato l'altra volta.
Persino dalla macchina riesco a intuire il lusso che emana questo ristorante.
“Abbiamo cambiato destinazione?” gli chiedo mentre inizio a pensare che non mi faranno mai entrare lì dentro con il mio anonimo completo da tutti i giorni.
“Ho pensato che questo ristorante fosse più indicato per stasera” e quando pronuncia stasera sento la pelle d'oca in tutto il corpo: “Aspettami qui” dice prima di aprire il suo sportello.
“In che senso?” chiedo prima che lui metta un piede fuori dall'abitacolo.
Lo vedo voltarsi verso di me con il suo sguardo deciso:
“Ragazzina sto per scendere e aprirti lo sportello” e quando vede il sorriso di compiacimento sul mio volto aggiunge: “è la prima volta che lo faccio e forse anche l'ultima qui smetti di sorridere così, stai ferma e aspettami”
E quando lo vedo correre per aprirmi la portiera penso che, nonostante tenti di fare il duro, è così sexy quando fa il galante.
Il ristorante è esattamente come mi aspettavo: lusso e piatti impronunciabili.
E mentre camerieri dai guanti bianchi continuano a sfilarci accanto e menù così alti ci nascondono l'uno all'altra sento un suo sospiro.
“Cosa c'è?” mi azzardo a chiedergli cercando di guardarlo oltre il menù.
“Ho sbagliato posto, vero?”
Come fa a leggermi nel pensiero? È la domanda che mi faccio mentre cerco d'indolorare la pillola.
“No, che dici. E' un ristorante... carino”
“Emma hai davvero appena definito il ristorante più rinomato di Milano... carino?” mi chiede quasi scandalizzato.
Arrossendo mi nascondo ancora di più dietro il menù. Sto per cercare di correggermi e trovare un aggettivo migliore quando la sua domanda diretta mi spiazza.
“Lo odi, vero?”
Chiudo il menù e lo guardo negli occhi. E decido di dirgli la verità.
“È un po' troppo finto” mi guardo attorno e sospiro: “troppi guanti bianchi ed esteriorità. Non so neanche cosa mangeremo o se sarà commestibile. Mi piaceva di più l'altro posto. Lì c'era qualcosa più di te” una pausa d'incertezza e poi una presa di coraggio: “Lì c'era il vero te”
Alle mie affermazioni segue un silenzio così imbarazzante che inizio a pensare di essermi esposta troppo, poi la sua risposta scioglie ogni mio dubbio.
“Menomale” dice trattenendo a stento una risata.
“Perché?”
“Perché non piace neanche a me” e circondando la mia mano con la sua dice mi chiede: “Mangiamo e scappiamo?”
“Sì” gli rispondo ricambiando il suo sorriso: “mangiamo e scappiamo”
E alla fine scappiamo davvero.
La nostra sembra una corsa infinita mentre la tensione è così alta che potrei tagliarla con un coltello e io mi ritrovo a odiare ogni semaforo rosso, ogni incrocio e ogni macchina che ci fa perdere tempo. Attimi preziosi.
Nell'ascensore ci baciamo frenetici e assettati, rubandoci a vicenda tutto l'ossigeno che abbiamo in corpo.
“Finalmente” è l'ultima parola che sussurra sulle mie labbra arrossate dai suoi baci prima di chiudere con uno sciocco deciso la porta dietro le sue spalle.
E lì, mentre affogo nei suoi baci, capisco che forse non ha chiuso solo una porta.
Forse, dietro le sue spalle, ha chiuso anche tutto il resto del mondo.

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