Capitolo sedici

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Il giorno successivo fu quasi del tutto identico a quello precedente. La mattina solo lavoro, con il mio solito rientro pomeridiano, e poi ogni volta che stavo un po' a casa quella musona di mia madre era asfissiante con i suoi silenzi.

Cominciai improvvisamente a sospettare che soffrisse di depressione, considerando il suo atteggiamento, e mi venne da pensare che magari ne era affetta da tempo, ma lievemente, e che la sua forma più acuta fosse emersa solo dopo l'ultimo e sconfortante malore.

Pensai anche che a breve, se la situazione non fosse migliorata almeno un po', sarei stata obbligata dalla difficile situazione a cercare consiglio presso un qualche specialista. Ma non volevo riflettere troppo sulla questione, ancora speravo che si risolvesse da sé, magari da un momento all'altro, come per magia; come se volessi solo continuare a illudermi, alla stessa maniera di una sciocca.

A lavoro tutto andava benone, per fortuna, e con la signora Virginia e con le mie colleghe andavo d'accordo, seppure tornassi a casa sempre sfinita.

Piergiorgio, nel frattempo, anche per quel giorno aveva latitato dal locale, e cominciavo a sospettare che non sarebbe tornato più, d'altronde era già stato tanti anni senza metterci piede e poteva tornare benissimo ad evitarlo. E sentivo, con un po' d'ansia, che forse questa sua sparizione era legata al bacio che gli avevo rifilato qualche sera prima, dandomi altro tormento.

Cercavo solo, a questo punto, di annegare la mia mente con tanta musica, e stavo spesso con le cuffiette alle orecchie e il cellulare in mano, per provare ad estraniarmi un po' dal mondo. Alcune volte ci riuscivo, altre un po' meno, ma in genere la musica mi curava un po'.

Per l'uscita di quella sera, ancora immersa in quegli incontri programmati e donati da Irene, mi vestii al meglio, per non presentarmi di nuovo in una realtà lussuosa in maniera alquanto provveduta.

Come la sera prima, la mia amica si fermò a fare un saluto incolore alla mamma, poi, dopo esserci adeguatamente congedati da lei, partimmo. Quella volta non avevo intenzione di dire molto in auto, temendo di sfiorare un qualche nervo scoperto, ma fu comunque Irene stessa a scegliere, come suo solito, di ciarlare e di cercare di evitare qualunque sorta di barriera tra noi, anche impercettibile.

"Allora, sei pronta per questa seconda serata?", mi chiese, tranquilla, e già al volante.

"Sicuro, anche se spero sia migliore della prima", le risposi, cercando comunque di non essere polemica.

"Simone non ti è proprio andato giù, mi pare di capire", tirò giustamente le somme, a quel punto, la mia interlocutrice.

"No, non è che non mi sia piaciuto, per carità; è un bel ragazzo, non c'è male, almeno fisicamente. Ma è rozzo, ha qualcosa da troglodita dentro, che lo porta ad essere molto rozzo a volte, e quindi anche a essere un po' imbarazzante, secondo me".

Irene rise, udendo le mie parole.

"Quindi non apprezzi un pizzico di originalità? Guarda che è un ragazzo serio".

"Non così tanta. E buon per lui se lo è".

"Non vuoi neanche più risentirlo, o rivederlo?", m'interloquì di nuovo.

"No, non ha importanza per me", risposi, con sincerità.

Era la verità; non mi aveva proprio lasciato nulla quel giovane, anzi, più lo pensavo, più mi veniva noia nel farlo.

Il Principe Azzurro arrivò a MezzanotteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora