Capitolo tre

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Giunsi al lavoro con ancora un mezzo sorriso sulle labbra. Il mio ritrovato e rinnovato rapporto con mia madre era riuscito a scacciare momentaneamente quel senso di vuoto e di vertigine che mi procurava la lontananza da Marco. Ma il suo silenzio, dentro di me, cominciava a irritarmi.

Quando varcai la soglia del bar-ristorante in cui lavoravo, mi lasciai alle spalle tutto il fardello di sentimenti e di situazioni differenti che mi ero portata dietro fin lì, decisa a non voler lasciare trapelare nulla alla mia datrice di lavoro.

La signora Virginia mi stava già guardando, piazzata dietro al bancone del locale, lanciandomi un'occhiata che ormai conoscevo bene, e che aveva lo scopo di sondare come mi presentavo a lei e alla gentile clientela, fin da subito.

Avrei tanto voluto sospirare, oppure abbassare lo sguardo, ma non potevo; conoscevo la singolare settantenne che mi stava davanti, e non dovevo far nulla, neppur una minima scelta, che avrebbe potuto ferirla. Per me quel lavoro era ancor più importante della mia dignità, e forse in quel frangente aveva ragione il mio ragazzo, quando mi diceva che esageravo sempre quando si trattava del mio impiego.

Io ci credevo fino in fondo, per me era davvero tutto; lo stipendio che ne traevo era l'unico aspetto della realtà che mi rendeva effettivamente indipendente, e inoltre trovare lavoro in un periodo di crisi era così difficile, anche per una ragazza piuttosto giovane come me, che non potevo sprecare quella chance che il destino mi aveva concesso.

Inoltre, mi sentivo molto fortunata ad avere un impiego, e questo continuava a far accrescere la mia smisurata fede verso quello che facevo.

Sorrisi quindi falsamente alla signora Virginia, una donnina di statura nella media, come pure il suo fisico, e vestita sempre in modo austero, ricoprendo i suoi abiti con la lunga divisa nera su cui era stata impressa, a caratteri quasi cubitali, il nome della sua attività; L'angolo della bontà.

Il nome del locale era più che appropriato, siccome lo chef che da tempo lavorava lì era uno dei migliori della nostra città, e sapeva preparare delizie sfiziose anche con pochissime materie prime a disposizione. Un vero genio della cucina.

"Buongiorno, signora Virginia", le dissi, con il massimo della cortesia e del rispetto, e con un tono davvero amorevole. Il massimo della finzione che potevo permettermi.

"Buongiorno, Isabella cara", replicò lei, con un tono altrettanto vizioso. Mi veniva quasi da ridere, quando in realtà stavo per entrare a piedi pari nel mio dramma quotidiano.

"Ah, vai a prendere uno straccio! Poco fa ad una cliente è caduta qualche goccia di caffè, proprio lì...".

E così dicendo, donandomi subito i primi cortesi ordini, la padrona si sbracciava dalla sua postazione seduta, proprio dietro la cassa, indicandomi il punto in cui era avvenuto il piccolo pasticcio.

Mi detti subito una smossa per recuperare uno straccio umido, e mettermi i guantini bianchi di plastica con prontezza. Sapevo alla perfezione, dopo un anno e nove mesi di collaborazione, che la signora non amava chi non si gettava immediatamente sul compito designato.

Dopo la rapidissima capatina nello sgabuzzino che condividevo con le mie colleghe, ed aver appoggiato la borsa dopo essermi messa il portafogli e il cellulare in tasca, acceso ma rigorosamente in modalità silenziosa, letteralmente mi gettai addosso la lunga divisa nera del locale e me ne tornai al cospetto della signora, guantata ed armata di straccio.

Dilungai dei buongiorno a tutti i clienti che mi capitarono a tiro, come sempre, e pulii prontamente il pavimento, controllata dagli occhi dell'arpia.

Il Principe Azzurro arrivò a MezzanotteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora