Capitolo ventuno

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La nostra uscita, infatti, non sarebbe potuta andare meglio, come mi accorsi col trascorrere graduale del tempo.

Cenammo mano nella mano, tra sguardi amorevoli e un bisogno crescente di trovare un posto tutto per noi, che non fosse sotto al naso di quel curiosone di Vincenzo, che ovunque si trovasse cercava sempre di buttare un occhio verso il nostro tavolo.

Non dovevamo comunque lamentarci, poiché il locale era quasi completamente vuoto. Cenammo con molta più calma rispetto alla nostra prima volta, essendo entrambi rilassati e imbevuti di desiderio, e qualche altro avventore si era unito a noi, seppur fosse stato sistemato in tavoli abbastanza lontani dal nostro.

A dire il vero, ben presto fui costretta a riconoscere che non avevo prestato alcuna attenzione al cibo che avevo mangiato, e all'ambiente circostante, se non proprio solo un minimo che non mi era neppure rimasto impresso nella memoria, siccome i miei occhi erano sempre puntati verso quelli di Piergiorgio.

Era stato il mio desiderio dell'intera giornata che stava volgendo al termine, quello di tornare a guardarli, con intensità, ed era incredibile quanto fossero espressivi. Erano acquosi, come se soffrissero di una qualche allergia, e questo li rendeva ancor più dolci, ancor più da cucciolo. E poi davano un senso di profondità che a guardarli anche solo a prima vista sembravano due porte aperte su un mondo tutto da scoprire, o almeno quella era la sensazione che offrivano a me.

Erano davvero fantastici, in poche parole.

Finimmo di mangiare quasi in fretta e furia, senza sapere che cosa sarebbe stato, da lì a poco, di noi, ma una premonizione sembrava aleggiare sulle nostre teste, poiché sentivamo entrambi che quella serata era destinata a non finire così. No, sarebbe stata speciale, siccome ci eravamo soltanto limitati a sfamare i nostri corpi, mentre l'anima doveva ancora essere dovutamente nutrita.

Divorammo le portate, pur di bruciare il tempo che ci separava da quello che più desideravamo, seppur tacitamente, e cioè trascorrere una nottata come quella precedente. La nostra cena fu fatta di occhiate, di sguardi fissi, di mani intrecciate sul tavolo, nei brevi momenti di attesa, ma le nostre labbra continuarono a non sfiorarsi, dovevamo resistere.

"Isa... non voglio dirti addio, tra poco", espresse la faccenda Piergiorgio, dopo essersi scolato distrattamente il sorbetto al limone che concludeva quella nostra cenetta, col suo fresco sapore dolce.

"Neppure io lo voglio", ammisi, sospirando.

"Restiamo qui, allora", concluse lui, sorridendomi e stringendo più forte la mia mano, ancora tra le sue, sul tavolo.

Rimasi un po' stupita da quella sua frase decisa, e non capivo bene dove volesse andare a parare, quindi mi limitai ad abbassare lo sguardo e a scuotere il capo, sconsolata.

"Chiedo a Vincenzo una camera, sono sicuro che ne ha una bella per noi, libera e pulita. Passiamo la notte qui", tornò a dire, notando la mia momentanea reticenza.

"Vorrei, ma non posso. Mia madre mi aspetta a casa", gli dissi, comprendendo meglio quel che voleva.

"Non hai detto che a tua madre non importa nulla di te?".

Piergiorgio, nel suo ardore amoroso, mi aveva colpito, in maniera molto ingenua, come se fosse stato un ago appuntito.

"Oddio, scusami, ti chiedo perdono, Isa... perdonami, sono stato indiscreto e maleducato", iniziò infatti a dire il mio amante, accorgendosi di cosa avesse appena detto, seppur l'avesse fatto solo con buone intenzioni, e non per ferirmi. Gliela avevo narrata io stessa, la vicenda, durante la prima parte disperata della serata precedente.

Il Principe Azzurro arrivò a MezzanotteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora