Capitolo trentatré

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Erano passati due giorni e mezzo da quando avevo varcato quella soglia, per recarmi a Milano, quella città così distante che non avevo mai visto in vita mia.

Giorni di separazione e di allontanamento da casa in cui mi erano capitate molte vicende che non avrei mai pensato prima di poterle vivere sulla mia pelle, e nonostante la breve ma forte discussione con la vedova di mio padre, molto spiacevole, convenni sul fatto che non avevo molto altro di brutto da ricordare. Erano state giornate piacevoli, quasi una piccola vacanza, come aveva detto anche il mio George.

Nonostante il mio sbattimento iniziale, provato prima di rientrare in casa, non appena percepii il profumo domestico di quelle mura interne mi sentii un po' più rallegrata, e il tocco di classe fu quando mi ritrovai di fronte a mia madre.

"Isa!", esclamò, soltanto, e in un attimo mi fu addosso e mi abbracciò fortissimo.

"Mamma!", esclamai a mia volta, ricambiando la sua stretta e lasciandomi sciogliere con un bel sorriso sulle labbra, appena ritrovato.

Finito il giubilo iniziale, e la sua sorpresa, sciolse prontamente l'abbraccio e mi rifilò un'occhiataccia senza precedenti.

"Ti sembra il modo di comportarti? Stavo per chiamare la polizia, giuro! Ti avevo dato per scomparsa, ogni volta che provavo a contattarti il telefono risultava spento", disse.

Aveva tutte le ragioni, e lo sapevo. Chiunque si sarebbe preoccupato, nei suoi panni. Con la mano destra corsi involontariamente a tastare il cellulare, che, ancora spento, se ne giaceva nella mia borsa, come un qualsiasi oggetto inutile.

"Scusami, scusami davvero!", mi affrettai a scusarmi, apparendo davvero pentita, ed un po' lo ero, nonostante mentre ero via non lo fossi affatto. "E' che sono successe tante cose e... alla fine mi sono dimenticata di accendere il cellulare".

Mentii, per metà, siccome non mi ero dimenticata di accenderlo, bensì l'avevo tenuto spento volutamente. Un leggero rossore imporporò di nuovo il mio viso, per via di quella situazione alquanto imbarazzante, in fondo mi stavo davvero pentendo di aver pensato solo a me stessa e alla mia relazione con George, senza mai avvertire la mia preoccupatissima madre.

"Va bene, capisco, ma se entro sera non saresti stata qui, a casa, avrei avvertito le autorità", sancì, infine.

Mi aveva perdonato, già vedevo un nuovo baluginio in fondo ai suoi occhi lucidi, che non era più rivolto al risentimento.

"Ti avrei compreso, se lo avessi fatto. Ma credo che in quel caso sarei stata proprio morta...", provai a sdrammatizzare.

Lei allargò le braccia, tornando a sorridere.

"Beh, sei ancora in piedi nel mezzo del corridoio? Vieni, vieni in cucina, dopo così tanti giorni di assenza dovrai rifocillarti a dovere", mi disse, senza più alcuna ombra di tensione. Il discorso precedente era già decaduto, ormai reso acqua passata.

Mi ricordò George, nel suo modo di fare, e una piccola fitta mi centrò al petto.

"Non ti preoccupare, mi sono già rinfrescata mentre tornavo a casa", mi limitai a rassicurarla.

"Oh, con un caldo del genere... chissà com'è stato... a proposito, dove hai parcheggiato la tua macchina?", mi chiese, a bruciapelo, lanciando uno sguardo fuori dalla finestra.

Mi prese un accidente. La mia macchina!

La mia macchina era rimasta in stazione, me n'ero completamente dimenticata, affidandomi a George. E lui non mi aveva messo in mente nulla.

Il Principe Azzurro arrivò a MezzanotteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora