Capitolo ventidue

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Dopo aver passato una notte tutto amore e lenzuola, venne anche l'alba, quella dannata luminosità che era destinata a infrangere i nostri sogni, e a spingerci ad uscire di nuovo allo scoperto. Poi, l'alba estiva era traditrice, siccome alle sei del mattino già c'era luce a sufficienza per svegliarsi per bene da ogni torpore notturno.

Alle sei e un quarto, io e Piergiorgio eravamo totalmente vestiti e pronti a lasciare l'albergo di Vincenzo. Eravamo stanchi, dopo una notte intensa in cui avevamo risposato solo un paio d'ore, verso il mattino, avvinghiati dalle nostre braccia, quasi i nostri corpi avessero voluto formare un intrico di carne e ossa.

Dovevamo, purtroppo, tornare alle nostre vite quotidiane, e a me dispiaceva tantissimo; per la prima volta avevo anche ricevuto la mia prima proposta di matrimonio, anche se non mi sentivo assolutamente in vena di accettare o di tornare a sfiorare l'argomento, anche se mi affascinava parecchio. Ero finalmente una donna, e tale mi sentivo, senza più quella piattola di Marco a soffiarmi sul collo.

Mi sentivo libera di decidere, ma... dovevo anche confrontarmi con mia madre, e con il lavoro e la vita di tutti i giorni. A preoccuparmi di più era proprio la mamma, e temevo che scoprisse che non ero neppure rincasata, quella notte, e non volevo che lei si facesse strane idee su di me, poiché non mi ero mai comportata in quel modo, neppure nel periodo di massima infatuazione per il mio ex.

Io e George abbandonammo così l'alberghetto di soppiatto, salutando un Vincenzo appena svegliato, che non si azzardò a chiedere nulla, seppur avesse già capito tutto, e finimmo dentro il fuoristrada del mio amante, a baciarci di nuovo. Vivevamo uno per le labbra dell'altra, e viceversa.

Quando non ne potemmo più, e la realtà tornò a farsi pressante, fummo costretti ad andarcene.

Giunsi a casa che erano le sei e mezzo, dopo aver promesso a Piergiorgio che entro mezzogiorno e mezzo sarei stata a casa sua, avendomi scritto l'indirizzo in un bigliettino che non avevo ancora letto e che tenevo ripiegato per bene, in quattro parti, nella mia borsetta. Cercai di non fare alcun rumore, e mi tolsi anche le scarpe, sempre per limitare ogni sorta di baccano.

M'infilai in camera mia di soppiatto, con circospezione, dopo aver eluso la placida sorveglianza materna senza alcun problema, passando di fronte alla sua porta ancora ben chiusa.

Quando fui al sicuro, mi venne però da sentirmi in colpa, e da chiedermi se fossi davvero un'incosciente, a star fuori tutta la notte senza dire nulla ad un genitore che era malato e che era stato dimesso da pochissimo dall'ospedale, a seguito di un gravissimo ricovero d'urgenza.

Con la testa tra le mani, mi lasciai andare sul mio letto, ma senza più pensare, cercando in modo parzialmente vano, comunque, di tenere la testa sgombra da ogni sorta di riflessione. Ben presto sarebbe stata ora di tornare al lavoro e di rivedere mia madre, quindi avrei avuto tutto il tempo per affrontare ogni prevedibile evento che in quel momento mi poteva sembrare una sorta di ostacolo insormontabile.

Alle sette e trenta, scesi al piano inferiore, e subito incrociai la mamma, che mi apparve torva. Era come se mi avesse atteso, con pazienza, nel corridoio, pronta a beccarmi nel momento opportuno.

"Ma', mi aspettavi?", le chiesi, provando a dissimulare la mia tensione anche tramite l'utilizzo di un pratico sbadiglio assonnato. Non che mi avesse richiesto sforzo, giacché ero ancora provata dalla vivace nottata appena trascorsa, però ero davvero agitata.

Il Principe Azzurro arrivò a MezzanotteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora