Capitolo 33

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Ho posteggiato volutamente lontano diversi metri dalla casa di Hazel. Ho bisogno di schiarirmi le idee e di smaltire la tensione con quattro passi. Faccio profondi respiri alla ricerca di una solidità che mi riesce difficile avere in un momento come questo: sto per incontrare dopo due anni quell'amica che avevo abbandonato. Ho bisogno di nuovo del suo affetto, del nostro rapporto, per andare avanti ed essere in pace con me stessa. Devo risolvere il mio peggior casino.
Mi fermo puntando i piedi a terra non appena la vedo attraversare il vialetto della casa, con un grosso scatolone tra le mani, verso una macchina posteggiata sul marciapiede.
È proprio come me la ricordavo. Quel sorriso allegro e leggero sulle labbra, i capelli castani che ricadono mossi oltre le spalle e le ciglia folte che nascondono occhi comprensivi e curiosi.
Mi avvicino lentamente, come se cercassi di non far rumore, entrando in punta di piedi di nuovo nella sua vita.
Non farò come anni fa quando, pentita, l'ho raggiunta a Central Park tra le lacrime. È scappata da me perché pensava che stessi cercando di risistemare le incomprensioni e gli sbagli tanto per tappare le ferite in modo momentaneo. Volevo davvero riavvicinarmi a lei, ma era troppo presto. Le ferite erano aperte e bruciavano per entrambe.
La raggiungo con le gambe che tremano e le mani che sudano. Ho paura di come reagirà, temo che non possa più perdonarmi, che non voglia vedermi per il resto del tempo che rimane dinnanzi a noi. Ma ci provo, perché sono qua per questo; Chase mi ha insegnato che non è mai troppo tardi per ricominciare, tornare indietro e risistemare gli errori.
Basta esserne pentiti sul serio, e lo sono. Non so come andrei avanti sapendo di averla persa per colpa di una mia cazzata adolescenziale.
«Hazel...» quasi mi è estraneo questo suono sulle labbra.
Lei è sempre persa nei suoi pensieri e impiega qualche secondo a sentire il mio mezzo mormorio e capire che davanti ha proprio la stessa ragazza dagli occhi ambrati e la chioma blu che ha deciso di rovinarla tanto tempo fa.
Boccheggia senza riuscire a dire niente, posa lo scatolone con una lentezza disarmante e mi guarda come se avesse dimenticato come sia fatta. Affonda le iridi nei miei occhi e si chiede effettivamente se sia qui per davvero, dopo due anni.
Sì, Hazel, ci sono. Glielo vorrei gridare a squarcia gola, ma resto immobile e impotente.
Quasi penso non respiri neanche, ma batte le palpebre riscuotendosi dai pensieri. Schiude ripetutamente le labbra alla ricerca di parole che sembrano sparite all'improvviso.
Ha molte più lentiggini sulle guance di quanto ricordassi, ed è una donna. Siamo cresciute entrambe, stiamo vivendo finalmente per conto nostro inseguendo dei sogni. Forse lei è riuscita pure a realizzarli.
«Non ci credo...» l'espressione di sgomento, lo sguardo sbigottito. Sembra addirittura impaurita, come se dovessi andarmene da un momento all'altro da sotto i suoi occhi.
Non scappo più.
Mi corre incontro e, prima di poter reagire, mi abbraccia così forte che il respiro si mozza, s'incastra nel petto.
È una sensazione strana, ma bellissima. Mi manca il fiato, ma questa è proprio felicità... sento di essere completa, quel pezzo di puzzle ora non manca più all'appello.
Dopo qualche secondo la stringo forte anch'io circondandole la schiena. Mi nascondo tra le sue ciocche e piango forte come non mi capitava da un po'.
È un misto di tante emozioni contrastanti, la tensione che lascia spazio al sollievo. Piange anche lei sulla mia spalla e capisco quanto le piccole cose come queste possano, in realtà, rappresentare grandi passi.
Mi chiedo perché abbia impiegato così tanto per raggiungere un momento così bello, perché questa felicità non l'abbia rincorsa molto prima.
Forse ci serviva questo tempo per pensare, riflettere, renderci conto di cosa - piuttosto di chi - ci mancava sul serio in questa esistenza. Forse avevamo bisogno di sentire il dolore nel petto per poi guadagnarci la libertà di piangere con l'intento di salvarci nel bene e nel male.
Avevamo bisogno di lontananza. Avevamo bisogno di crescere, di acquisire consapevolezza.
Avevamo bisogno d'imparare ad apprezzare un istante come questo.
Pensavo che mi avrebbe urlato addosso, pensavo fosse ancora profondamente arrabbiata. Avevo paura della sua reazione ma ora ho solo paura di perderla nuovamente, che questo abbraccio finisca subito.
Rimaniamo semplicemente così, al centro di questo prato perfettamente tagliato, con sospiri a metà, gocce salate sulla pelle e mille parole non dette, ma che vengono compensate dal silenzio rumoroso dei ricordi.

Indelebile come un tatuaggioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora