Capitolo 54

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Passò molto tempo prima che trovasse le forze dentro di sè per alzarsi, prima che le lacrime smettessero di annebbiargli la vista.
Lunghi minuti o forse ore in cui la sua emotività aveva preso il sopravvento sulla ragione.

La ragione che li aveva portati a quella decisione, la terribile consapevolezza di amarsi ma di farsi male.
Maledetta ragione.

Si alzò, sollevando le sue membra distrutte dal pavimento gelido, lasciando alle sue spalle il profumo dell'estate per uscire dal portone del palazzo.

L'inverno era lì ad attenderlo, il suo viso fu colpito in pieno da un ceffone del vento, gelido vento, quello che  ghiaccia il naso immediatamente e sulla pelle da là stessa sensazione di diecimila aghi incandescenti.
Ma nulla lo avrebbe mai sfiorato per davvero, in quel momento il suo corpo era svuotato, vuoto di ogni cosa, il cuore era pesante come un macigno, stava nel suo petto e ancora batteva imperterrito come se volesse fare un dispetto a tutti. Scandiva ancora i battiti della sua vita, ma lui non si sentiva vivo.

Uomo morto che cammina.

Appena fu al sicuro all'interno dell'auto si lasciò andare nuovamente, aveva percorso solo pochi metri a piedi eppure gli sembrava di camminare da mesi, forse anni.
Prima ancora di infilare la chiave nel quadro d'accensione altre mille e più lacrime fecero capolino dai suoi occhi. Presto i due piccoli rigagnoli divennero dei fiumi incontrollabili e si trovò immobile, abbandonato sul sedile del guidatore, illuminato fiocamente dai lampioni e dal passare annoiato di alcune auto.
Il capo posato prima al poggiatesta e poi abbandonato, con la fronte sulle mani sul volante, gli occhi rossi, le mani che avevano perso la loro lotta e smesso di tentare di fermare la tristezza che continuava a buttare fuori.
Alcuni singhiozzi lo scuotevano di tanto in tanto dandogli la certezza d'essere ancora vivo.

Quando si sentì pronto a mettersi alla guida prese a vagare per le strade di Milano ignorando i dettagli di quella città che negli anni era diventata familiare, quasi casa, evitando di pensare, tentando in tutti i modi di concentrarsi solo ed esclusivamente sulla strada, le regole e la sicurezza.
Non se la sentiva di tornare al suo appartamento che, per quanto fosse un nido sicuro, ne era certo era ancora avvolto di ricordi.
Guidò fino a che stanco di ogni cosa non si ritrovò a suonare il campanello di una casa che conosceva fin troppo bene nel cuore di una notte artica del capoluogo lombardo.

La porta dopo interminabili attimi si aprì rivelando Marco, capelli spettinati ed occhi assonnati con addosso solo una maglia a maniche corte grigia e dei boxer.
Sputò una bestemmia contro l'amico prima ancora di chiedergli cosa ci facesse lì.
La luce fioca del corridoio alle sue spalle, gli occhi impastati di sonno e la notte scura all'esterno non lo aiutavano e non si rese nemmeno conto di specchiarsi in due fiumi dal letto rosso, che di fronte a sé aveva un viso distrutto e segnato dal pianto.

Ermal non riusciva a mettere insieme due parole, non era in grado di rispondere alla domanda, in effetti nemmeno lui sapeva che cosa ci facesse lì.
L'unica cosa che gli venne naturale fare però non necessitava di parole, gettò le braccia al collo di Marco che lo accolse con sospetto ed iniziò seriamente a preoccuparsi.

Non era da Ermal suonare il campanello di notte, certo il telefono glielo aveva fatto squillare in momenti assurdi e ad orari impensabili e quello avrebbe potuto essere semplicemente un nuovo livello, una sorta di upgrade lavorativo per nulla piacevole.
Ma le braccia strette al collo ed il calore umido che sentiva sulla spalla sinistra erano qualcosa di diverso.

Cosa?

Ermal non parlò e Marco non ci provò nemmeno a calcare la mano, non era il momento, forse non lo aveva mai visto in quelle condizioni.
Aveva stretto le sue braccia intorno al corpo dell'amico, un singhiozzo di tanto in tanto fendeva l'aria nel tentativo strano di comporre una frase.
Aveva detto solo due parole comprensibili tra un singhiozzo e l'altro "Asia" e "Finita", non ci voleva una laurea per metterle insieme.
La laurea invece era necessaria per capire cosa li avesse separati, perché si fossero lasciati.

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