Wake me up inside!
Call my name
and save me from the dark.
Bid my blood to run
before I come undone.
Save me
from the nothing I've become.
[Bring me to life; Evanescence]
Il forte odore di disinfettante fu la prima cosa che Benjamin avvertì quando aprì gli occhi, seguita subito dopo da un fastidio alla gola e un dolore poco definito che lo colpì come uno schiaffo improvviso appena cercò di mettersi a sedere.
Si accorse di essere incredibilmente lucido, fin troppo per quanto aveva bevuto e in un attimo flashback cronologicamente sfasati si alternarono davanti ai suoi occhi come un vecchio film: un tubo di plastica fatto scivolare tra le labbra fino a raggiungere il suo stomaco e la sensazione di essere letteralmente svuotato, una stretta vigorosa intorno ai polsi, voci dei medici e dei suoi amici che giungevano amplificate alle sue orecchie, la testa sbattuta violentemente contro il muro mentre un ragazzo senza volto si spingeva nella sua bocca e poi lacrime, tormenti, buio.
«Benjamin come ti senti?», chiese cautamente Dylan, che scattò in piedi appena lo vide sveglio e reattivo.
Il moro non rispose, tornò a sdraiarsi tirandosi le coperte fin sopra al viso e si sistemò su un fianco, dando le spalle agli amici.
«Benjamin», sussurrò Steven posandogli una mano sulla spalla ma non ottenne alcuna risposta.
Il ragazzo guardò Dylan e parlandosi con gli occhi decisero di coinvolgere il medico, lo stesso che li aveva accolti al loro arrivo.
«Ciao Benjamin, so che non vuoi parlare quindi lo farò io», esordì l'uomo poco più grande di loro, toccandosi la barba scura. «Sono il dottor Austin, ma tu puoi chiamarmi Jordan», si presentò cordialmente. «Qualche ora fa ti ho fatto una lavanda gastrica per evitare che cadessi in un coma etilico, puoi dirmi se senti qualche fastidio allo stomaco?», chiese e vide Benjamin fare un cenno negativo con la testa. «Bene! E puoi dirmi se ricordi cosa è successo stanotte?», tentò usando un tono fermo ma accogliente.
Benjamin non si mosse e il dottor Austin fece un secondo tentativo.
«È importante che tu mi dica se ricordi qualcosa Benjamin, sono qui per aiutarti», disse lanciando un'occhiata a Dylan e Steven, che gli avevano già spiegato cosa fosse successo.
La stanza rimase avvolta dal silenzio per minuti interi, finché Benjamin mosse la testa dall'alto verso il basso in un cenno affermativo prima di rannicchiarsi e sprofondare ancora di più nel cuscino.
Il moro aveva soltanto ricordi confusi intervallati da immensi buchi neri, non sapeva di preciso perché fossero lì né perché avesse segni violacei intorno ai polsi.
Nella sua testa si susseguivano frammenti della serata al Birdees ai quali non riusciva a dare un ordine, sentiva la mente annebbiata e il cuore sottosopra ma dalle voci preoccupate dei suoi amici e del medico capì che fosse successo qualcosa di grave.
«D'accordo», disse il dottor Austin. «Torno tra dieci minuti, ti lascio qui un bicchiere d'acqua… bevilo, hai bisogno di idratarti altrimenti sarò costretto a metterti una flebo», aggiunse e dopo aver fatto un cenno a Dylan uscì dalla stanza.
«Tieni Ben», affermò Steven porgendogli il bicchiere ma l'amico non si mosse, era ancora avvolto tra le coperte e non accennava a volersi spostare. «Avanti Ben, devi bere… hai sentito cosa ti ha detto, non vorrai mica la flebo! Su, fai qualche sorso e...»
Con un gesto di stizza Benjamin gli strappò l'oggetto dalle mani scagliandolo sul pavimento facendolo rompere in mille pezzi.
Si sentiva rotto come quel bicchiere, distrutto e spezzato, ormai inutile.
Vide l'incredulità negli occhi dei suoi amici, non voleva ferirli ma solo difendersi anche se non sapeva bene da cosa volesse proteggersi mentre nuovi ricordi frammentati gli affollavano la testa.
«Vuoi che chiami Federico?», propose Dylan giocando l'ultima carta disponibile.
Nel sentire quel nome Benjamin diventò pallido e lacrime amare si accumularono agli angoli degli occhi, il cuore lacerato dalla consapevolezza di non poter dare la risposta che voleva e nuovi ricordi sotto le sue palpebre.
Le labbra del biondo a contatto con quelle di Scott, la gelosia a farsi spazio tra le ossa, il senso d'inadeguatezza e l'inizio della fine.
«No», sputò e pianse, senza riuscire a fermarsi. «Federico si è stancato di me».
«Che cosa stai dicendo Ben? Non è vero, gli ho parlato qualche giorno fa e ti assicuro che...»
«Ho visto Federico e Scott baciarsi», disse fissando il vuoto. «Scott ottiene sempre tutto, non si merita Federico ma Federico merita un ragazzo normale e io non lo sono», aggiunse e tornò a rifugiarsi sotto le coperte, singhiozzando perché avrebbe voluto che il biondo fosse lì a dirgli che tutto sarebbe andato bene.
«Cristo santo Ben, ma ti senti quando parli?», sbottò Steven che ormai aveva smesso di mantenere il controllo, troppo provato dagli eventi successi all'amico nelle ultime settimane. «Lo sai com'è fatto quel pallone gonfiato, ci ha provato con ogni essere vivente di Byron Bay! Ha tentato di baciare anche Dylan, convinto che fosse bisessuale!», gli ricordò.
«Federico tiene davvero a te», intervenne Dylan. «E so che tu vorresti che fosse qui, lo vedo che la sua presenza ti fa stare bene! Non lo chiamo se non vuoi ma… aspetta, è per quello che hai visto che sei andato al Birdees a bere come una spugna?».
«Sì, volevo… volevo solo dimenticare quell'immagine e anche Federico ma ho rovinato tutto», rispose e perse ancora un po' di sé, poi si costrinse a stare in silenzio e crogiolarsi nel suo dolore.
Scivolò nel dormiveglia e si risvegliò solo un'ora più tardi, quando il dottor Austin tornò nella stanza seguito da una giovane dottoressa con il viso circondato da un caschetto biondo e gli occhi verdi nascosti dietro un paio di occhiali dalla montatura nera.
«Lei è Stacey», la presentò con un sorriso. «La psicologa del pronto soccorso», aggiunse e vide Benjamin agitarsi.
Il moro sapeva di aver bisogno di parlare con qualcuno, lo sapeva da cinque anni.
Era consapevole di non poter superare da solo i suoi traumi, era consapevole di essere ad un passo dal diventare dipendente dall'alcol, era consapevole di dover chiedere aiuto ma non l'aveva mai fatto.
Non perché pensasse che chiedere aiuto fosse da deboli o perché si vergognasse ma perché non voleva davvero guarire, voleva viversi quel dolore fino all'ultima goccia ma fu esattamente in quel momento che comprese di essere ormai stremato.
Il dolore interno che lo colpiva ogni volta che muoveva la parte inferiore del corpo, unito ai lividi sui polsi e a qualche altro flashback lo aiutò ad unire i puntini per ricostruire gli eventi delle ultime ore.
La consapevolezza di essere stato violato si era tramutata in una profonda sensazione di vergogna intervallata da numerosi sensi di colpa, il suo pane quotidiano.
Nulla per Benjamin era più semplice di trovare un qualsiasi motivo per colpevolizzarsi e quella volta fu ancora più facile, si odiava per essere scappato come un ragazzino e aver reagito ubriacandosi invece di fermarsi a parlare con Federico, finendo a perdere del tutto il contatto con la realtà e permettendo ad uno squallido sconosciuto di prendersi il suo corpo con la forza e la violenza.
Il moro aveva fatto sesso con sconosciuti per anni ma non aveva mai infranto le loro volontà, aveva sempre scelto partner consenzienti e soprattutto lucidi.
Lui non lo era mai, senza alcol in corpo non sarebbe riuscito a farsi toccare né tanto meno spogliare ma non avrebbe nemmeno lontanamente pensato di potersi approfittare di qualcuno, usava e si lasciava usare ma senza mai ledere la dignità e il rispetto altrui.
Quel ragazzo che si era preso il suo corpo lo aveva fatto e Benjamin si sentì spezzato a metà, completamente svuotato e gettato al suolo come un mozzicone consumato, pestato da chiunque.
Riusciva ad immaginare le mani strette intorno ai polsi e persino le parole che il suo aggressore aveva pronunciato, non le ricordava ma sapeva che erano state brutali come i suoi gesti, privi di qualsiasi accortezza.
Si sentì violato nel profondo ma la sensazione peggiore non era quella, bensì la convinzione di meritarselo.
Non riusciva a pensare ad altro se non a quello, al fatto che dopo l'evento accaduto cinque anni prima lui non si era mai più sentito degno di essere amato ed era convinto che meritasse solo di stare male, di soffrire per espiare una pena per qualcosa che non aveva nemmeno commesso.
Non si era accorto di aver iniziato a piangere e neanche di essere rimasto solo con la psicologa, a chiedere silenziosamente aiuto.
La donna parlò con tono calmo e pacato, come se già sapesse cosa gli fosse successo e Benjamin provò davanti a lei una vergogna mai provata prima. Si sentì violato per la seconda volta, consapevole di avere impresso nei tratti del suo viso tutto il ventaglio di emozioni che gli bruciava nel petto, estremamente vulnerabile ma sapeva che la dottoressa non avrebbe usato la sua fragilità per ferirlo e fu quella consapevolezza a fargli sputare il suo dolore in un flusso disordinato e incoerente di parole.
Appena aprì la bocca per parlare comprese che fermarsi sarebbe stato impossibile, aveva un opprimente bisogno di raccontarsi e pronunciare la prima parola fu come far straripare un fiume, non riusciva a controllare ciò che stava dicendo e parlò come se non lo avesse fatto per anni; in effetti era così, aveva parlato ma mai davvero, mai del tutto.
Raccontò dei suoi weekend al Birdees e di tutti i modi che aveva usato per autodistruggersi, della sua paura di essere diventato dipendente dall'alcool e di non poter più smettere di farsi male per sopravvivere, disse persino ciò che ricordava dell'esperienza più avvilente della sua vita, quella vissuta qualche ora prima.
La psicologa lo ascoltava rimanendo in silenzio e Benjamin gliene fu grato, perché se fosse stato interrotto forse non avrebbe più avuto il coraggio di mostrare le sue debolezze una dopo l'altra.
Si sentiva davvero compreso e gli sembrava assurdo perché la donna non lo conosceva, sapeva a malapena il suo nome e qualche informazione sulla cartella clinica ma niente di più; un pensiero che rassicurò il moro e lo fece rilassare, portandolo a sviscerare il dolore che per anni si era cucito addosso come un'armatura.
Per la prima volta condivise il suo malessere con un'altra persona anche se non nominò mai Aiden, quel nome rimaneva sempre incastrato tra le pieghe del cuore e sapeva che se lo avesse pronunciato sarebbe stato costretto a raccontare chi fosse e perché non fosse più lì, quindi si sforzò per non dirlo mai.
Aiden era in ogni cosa che faceva o pensava, era la sua costante tra giornate infinite e tutte uguali, la sua certezza perché neanche la morte aveva potuto recidere ciò che li univa.
Pianse tanto, tra una parola e l'altra, e quando finì di dire tutto ciò che aveva tenuto dentro per anni si sentì molto più leggero di fronte allo sguardo accogliente della psicologa.
«Sono rotto dentro dottoressa, nemmeno lei può aggiustarmi», sputò infine, asciugandosi gli occhi rossi e umidi.
«Non sono qui per aggiustarti Benjamin», disse comprensiva. «Nessuno può aggiustarti se non vuoi, io sono qui per aiutarti a rimettere insieme i pezzi che hai lasciato nei drink, nelle corse folli in sella alla tua moto, tra le mani degli sconosciuti con i quali hai avuto rapporti sessuali… i frammenti di te che hai lasciato in una vita che non ti appartiene».
«Non mi appartiene ma è l'unica che posso vivere, perché quando sono me stesso è tutto un casino… io sono un casino», rispose afflitto e inerme.
«Lo sai cosa diceva Nietzsche?», chiese e vide il ragazzo fare un cenno negativo con la testa.
«L'ho studiato al liceo ed ero piuttosto bravo ma non me lo ricordo», disse infatti, cercando di capire cosa stesse cercando di dirgli.
«Diceva che bisogna avere il caos dentro per partorire una stella danzante», spiegò sorridendo. «Tutti siamo incasinati ma cosa sarebbe l'ordine senza il caos?», aggiunse lasciandogli la parola.
«La mia vita di prima era perfettamente ordinata, io so cosa significa stare bene ed essere felici… ora non lo so e forse non lo saprò mai più», affermò sconsolato. «So soltanto che voglio vivere, l'ho capito quando ho fatto l'incidente in moto ed ero ad un passo dal perdere i sensi», precisò sicuro di ciò che stava dicendo.
«È un grande inizio, non credi?», gli domandò.
«Sì», confermò. «Ma non so vivere senza farmi male, guardi come mi sono ridotto… un ragazzo mi ha violentato ed è soltanto colpa mia, se solo non avessi...»
«Non è mai colpa della vittima, mai! Faccio questo lavoro da anni e ho scelto di lavorare in pronto soccorso per stare accanto alle vittime di abusi e violenze, non solo sessuali», rispose e fece una pausa per radunare le parole. «Il tratto in comune tra tutti i pazienti è la convinzione che sia colpa loro, unito alla forte vergogna», continuò guardandolo negli occhi, ancora gonfi e velati di lacrime. «Si colpevolizzano perché credono di aver sbagliato a indossare una minigonna o un rossetto troppo rosso, oppure un vestito corto e un paio di scarpe con il tacco o perché hanno bevuto un bicchiere in più del solito ma nessuna di queste scelte è un via libera per approfittarsi di qualcuno», disse e vide Benjamin scuotere la testa.
«Se io fossi stato lucido non sarebbe successo, è colpa mia… non avevo né i riflessi, né la forza per difendermi e gli ho permesso di prendersi il mio corpo perché non avevo altra scelta! Se non fossero arrivati i miei amici lui mi avrebbe...», affermò piangendo, incapace di continuare.
«Se tu fossi stato lucido forse avresti potuto difenderti, è vero, ma eri ubriaco e lui non aveva alcun diritto di approfittarsi di te!», disse posandogli una mano sulla gamba. «Non è colpa tua Benjamin, non è mai colpa tua se una persona fa qualcosa contro la tua volontà», precisò e il moro pianse ancora, mostrando tutto il dolore che aveva dentro.
Rimase ad ascoltare la psicologa per un tempo indefinito e senza neanche sapere come, si convinse a denunciare il ragazzo e a farsi visitare meglio, consapevole di aver raggiunto il fondo e di essere ad un passo dal crollo definitivo.Fuori dalla stanza, chiusa da un'ora abbondante, Dylan e Steven stavano parlando e commentando l'accaduto quando all'improvviso il telefono del primo squillò facendolo sbiancare.
«Pronto?», disse incerto.
«Ciao Dylan, scusa se chiamo te ma Ben ha il cellulare staccato e a casa non c'è! Sai dov'è? Devo parlargli ora, è importante», esordì Federico, con la voce che lasciava trasparire una leggera rabbia.
«È successo qualcosa?», rispose sviando, indeciso su cosa dire.
Lanciò un'occhiata a Steven, come se l'amico potesse leggergli nel pensiero e suggerirgli una risposta.
«È successo che sono incazzato e gli devo parlare adesso, se vuole qualcuno da prendere in giro non sono certo io!», quasi urlò mettendo il suo interlocutore in seria difficoltà.
«Federico non so come dirtelo quindi andrò dritto al punto, siamo in ospedale a Brisbane», disse cercando di non usare un tono preoccupato.
«Cristo santo, che cosa ha combinato stavolta?», esclamò ancora infastidito per quello che aveva visto. «Sta bene?», aggiunse subito, terrorizzato all'idea che gli fosse successo qualcosa di grave.
«No, non sta affatto bene… Federico devi venire qui», rispose. «Non so cosa sia accaduto perché tu sei incazzato con lui e lui è incazzato con te e io non sto capendo nulla ma so che Benjamin ha bisogno di te anche se non vuole vederti», aggiunse.
«Benjamin è incazzato con me? Fammi capire, lui si lascia toccare da un altro e per poco non ci fa sesso su un dannato divanetto e ha il coraggio di incazzarsi con me?», sbraitò nervoso, facendo chiarezza nella mente di Dylan.
«Oh cazzo», esclamò l'australiano. «Eri al Birdees?», chiese incredulo.
«Già, ero al Birdees», disse irritato. «Volevo fargli una sorpresa, invece l'ha fatta lui a me… alla faccia del voler andare piano, per poco non se lo scopava sul divanetto quel pallone gonfiato che gli stava sopra», esclamò sempre più furioso, non voleva riversare tutta la sua rabbia su Dylan ma non riusciva a smettere.
«Federico aspetta, non è come credi», rispose cercando le parole giuste.
«L'ho visto con i miei occhi Dylan, so che è tuo amico ma non puoi difenderlo sempre!», lo interruppe ma il ragazzo fu più svelto e riprese a parlare prima che Federico continuasse.
«Benjamin era completamente ubriaco», disse. «E quel ragazzo lo ha... violentato nel bagno!», aggiunse e riuscì a sentire il sospiro spezzato del biondo.
Federico era seduto su una panchina a poca distanza da casa del moro ed ebbe bisogno di qualche secondo per metabolizzare ciò che aveva sentito. Sentì qualcosa infrangersi dentro al solo pensiero di Benjamin inerme e indifeso tra le mani di uno squallido sconosciuto, e non seppe cosa dire.
«Come sta ora?», riuscì a sussurrare mentre radunava tutta la sua lucidità e correva a cercare un taxi.
«Puoi immaginarlo… crede che sia colpa sua! Fisicamente sta abbastanza bene, ha dei lividi sui polsi e credo qualche lesione interna ma non ne sono certo, non ci ha detto bene cosa sia successo in quel bagno perché non se lo ricorda, ha ricordi confusi… non l'abbiamo mai visto così ubriaco, ha visto te e Scott in spiaggia oggi e...»
«Oddio!», urlò sconvolto per tutto, per il racconto di ciò che era successo e per quello che aveva scoperto. «Non riesco a crederci… era venuto in spiaggia per me, voleva farmi una sorpresa», sussurrò più a se stesso che a Dylan. «Sono salito ora in taxi, sto arrivando», lo avvisò e allontanò il telefono dall'orecchio per comunicare al tassista l'indirizzo.
«Adesso sta parlando con la psicologa, quando esce lei torno dentro e gli dico che stai venendo qui… non vuole vederti, è convinto che tu ti sia stancato di lui e che meriti di meglio, ma faccio del mio meglio per convincerlo perché so che in realtà vorrebbe solo te», rispose l'australiano.
«Se non vuole vedermi sfondo la porta, non ha scelta», affermò e chiuse la chiamata mentre una sensazione di impotenza gli attorcigliava lo stomaco e la voglia di piangere lo assaliva come una valanga improvvisa.
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As free as the ocean | Fenji
FanfictionOgni persona vive il dolore in modi diversi. C'è chi lo combatte e reagisce, rialzandosi più forte di prima e portando con orgoglio le proprie cicatrici, dimostrando che si può rinascere dalle ceneri. E poi c'è chi lo assorbe fino a farlo diventare...