60. Fuga dalla Casa degli Specchi

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Le davano fastidio e Megan strinse per bene i pugni, decisa ad affrontarle. Stavano sul campo a chiacchierare invece di prendere sul serio gli allenamenti assegnati, sparlando di Kara e di come avesse passato il tempo a divertirsi o a cercare un modo per essere migliore di loro trascurando gli impegni con la squadra. Non poteva stare ad ascoltarle per un altro secondo di più: «Siete incredibili», urlò camminando a passo spedito verso di loro. «Ingrate, arroganti, ridicole. Non provate neanche un po' di riconoscimento per tutto quello che ha fatto Kara per noi, per la squadra?».
Una di loro scrollò le spalle, cercando di inquadrare i volti delle compagne per avere manforte. «Oh, beh, e ora ci pianta in asso per una pillolina».
«Non c'è nessuna conferma di questa storia».
«Beh, il coach ci crede», sostenne un'altra ragazza, gonfiando il petto.
Megan alzò gli occhi al cielo, seccata. «Beh, il coach è un idiota», sbottò. Si accorse troppo tardi degli sguardi delle ragazze che le stavano suggerendo, in ritardo, di starsi zitta. Sbiancò, girandosi e trovando Millard a pochi passi, fumante di rabbia. Si stava preparando per l'eruzione del vulcano che un'altra compagna di squadra, camminando verso di loro a testa bassa, le portò con titubanza il cellulare che suonava, chiedendo scusa a entrambi, certa di aver interrotto qualcosa. Ignorava di averle appena salvato la vita. «Devo... devo rispondere», indicò il cellulare e, con un finto e breve sorriso, gli sfuggì. Era quasi certa di averlo visto grondare saliva come un vecchio cane rabbioso, ma ci avrebbe pensato dopo. Portò il cellulare all'orecchio e rispose senza che avesse prima visualizzato il numero. Appena udì la sua voce, le gambe smisero di muoversi.
«È un brutto momento?».
Megan prese un grosso boccone d'aria, per poi serrare le labbra con forza. Eccolo. Dopo giorni e giorni e giorni ad aspettare che si facesse vivo, esordiva con una domanda assurda, dovendo ben immaginare come non aspettasse altro che risentire la sua voce. «... Ho... Ho appena dato dell'idiota al nuovo coach», bofonchiò e lo sentì fare una breve risata.
«Quindi ti stai trovando bene».
Oh, ma naturale, pensava che lo avrebbe salvato il sarcasmo? Giorni trascorsi così nervosa, così in pensiero, e lui faceva del sarcasmo. «Dove sei? Dove sei stato?». Riprese a camminare, allontanandosi dal campo verso gli spalti. L'aveva tagliata dalla sua vita all'improvviso senza una singola parola e ogni secondo in più che passava al cellulare, ogni parola in più che le diceva, la sua rabbia accresceva. Se poi era per dirle di aver trascorso quel tempo a Metropolis e di aver tolto la sim dal cellulare per non essere disturbato, come poteva, John, non prevedere che sarebbe scoppiata? «Ti prendeva così tanto tempo inviarmi un messaggio per dirmi che saresti stato irreperibile? Sono stata in pensiero, John, per giorni», sottolineò, tirando le labbra. «Per-giorni. Avevo bisogno di sapere che stavi bene e tu avevi tolto quella dannata sim».
Lui sospirò. «Non volevo ti preoccupassi».
«E cosa pensavi che sarebbe successo?», si nascose sotto gli spalti vuoti, schiena contro un pilastro.
Lui ci mise un po' a rispondere: «Ci siamo lasciati e tu...».
«E io?».
«Non mi hai dato una seconda possibilità e pensavo non mi avresti cercato. Lo so che ti avevo detto che avremo parlato, ma pensavo... Sei impegnata. Avete le ultime partite e gli esami e-».
«Non parlarmi come se fossi una studentessa qualsiasi», a quel punto inveì, passandosi una mano sui capelli, tirando dietro un orecchio una ciocca sfuggita all'elastico. «Io sono una: non avete, ho». Prese un grosso respiro, stringendo un pugno. «Fammi capire per bene: il fatto che io non ti abbia subito il via libera perché volevo comprendessi come mi sentissi, mi impedisce in qualche modo di preoccuparmi per te?! Ero in pena, John. Soprattutto ora che so che lavoro fai».
«Mi dispiace».
Lei strinse gli occhi un istante. «Vai al diavolo». Chiuse la telefonata senza possibilità di replica, guardando poi il cellulare che tremava, stretto con collera. Lo fece, lo mandò al diavolo. Si sentì liberata di un peso e, allo stesso tempo, triste. I propri occhi apparivano così piccoli sullo schermo del telefono, così sottili e lucidi. Ma non avrebbe pianto. Megan si voltò per appoggiare la fronte contro il pilastro, sconfitta. Le mancava, era l'uomo della sua vita, ma ogni volta che il pensiero di perdonarlo le sfiorava la mente, lui faceva o diceva qualcosa di sbagliato che le permetteva di tirarsi indietro. Dei giorni a Metropolis. Aveva tolto la sim. Era chiaro che, qualsiasi cosa avesse per la testa, ora a lui stava bene che le cose tra loro fossero così. Poteva andare dove voleva e sparire e se lei conosceva almeno in parte quell'organizzazione e il resto contro cui lui indagava, e grazie a Kara e non di sicuro a John, probabilmente stava combinando qualcosa e la voleva fuori, semplice, come se bastasse a non farle pensare a lui di continuo. Di continuo, maledizione.
John Jonzz si si grattò la nuca e, sbuffando, rimise via il telefono in una tasca dei pantaloni neri. Aprì lo sportello dell'auto e uscì, incantandosi a osservare la sua immagine riflessa nello specchietto laterale. Era capace di riconoscersi? Chi era quell'uomo e che ne aveva fatto del John finalmente felice di avere la compagna giusta accanto? Si allontanò mettendo su una faccia seriosa e raggiunse Fort Rozz dall'altra parte della strada. Sapeva che fine gli aveva fatto fare: aveva messo davanti il suo lavoro e non avrebbe avuto il lusso di pensare a un'alternativa. Stare con lui poteva essere rischioso, di questi tempi. La amava e anche per questo avrebbe dovuto lasciarla andare. Non lo sapeva Megan, ma neanche al D.A.O., in effetti, sapevano cosa gli passava per la testa. Per fare il suo lavoro, aveva sposato la drastica decisione di nascondere come lo stava facendo al suo stesso lavoro: c'era almeno una spia al D.A.O., ne era sicuro, e non poteva permettersi azzardi. Aveva detto loro che sarebbe andato a fare una vacanza, lasciando altri a coordinare in sua assenza, e ora era tornato a National City, come niente fosse, solo per chiacchierare con Astra Inze prima della sua imminente scarcerazione. In passato l'aveva già interrogata diverse volte, ma non voleva perdersi l'occasione di farlo per quella che poteva essere l'ultima.
L'uomo si sedette e guardò la donna per un po', prima di proferire parola. Lei fece altrettanto mentre era tenuta stretta dalle manette dal suo lato del tavolo: era pulita, i suoi capelli vaporosi, le labbra piene e una carnagione vivace. La vita in carcere non sembrava così dura, dopotutto. «Ti tratti bene», iniziò spezzando quel silenzio e avvicinandosi con un gomito sul tavolo. «Non ti fanno mancare nulla, bene».
«Cosa insinua, agente Jonzz?».
«Niente», rispose con una scrollata di spalle e una smorfia sul viso. «Non vorrei dire qualcosa di troppo, in verità: qui tutto ha orecchie. Era solo un'osservazione: stai bene, sono contento. Sono solo passato a salutarti». Si sgranchì le dita, andando ad appoggiare la schiena. «L'appello al processo di questo pomeriggio potrebbe essere l'ultimo. Emozionata, suppongo».
Astra piegò le sopracciglia, commossa. «Sono passati dodici anni... sì, sono emozionata».
«Tante cose da fare. Ritrovare ciò che si è lasciato in un mondo che intanto è andato avanti», intrecciò le dita delle mani, dando di nuovo peso sul tavolo. «Come Kara, ad esempio». La tenne d'occhio e sorrise impercettibilmente quando la vide alzare un sopracciglio come colto da una piccola scossa elettrica: il suo nervo scoperto, pensò lui. «Le ho fatto da coach, in questi ultimi anni», incalzò con fierezza, rimettendo dritta la schiena. «Lacrosse. È molto brava».
«Non sapevo che durante il tempo libero, agli agenti del D.A.O. fosse permesso insegnare sport».
«Era una copertura. Dovevo tenerla d'occhio, sai da cosa. Kara Danvers ha sempre vissuto con qualcuno che le guardava le spalle da quando la sua casa è esplosa. E così suo cugino», spiegò. «Prime di me, lo hanno fatto altri. Non lo ha mai saputo ma è da quando Rhea Gand è agli arresti che è libera per la prima volta». Astra Inze sorrise e, con occhi chiusi, lui la adocchiò tirare un sospiro di sollievo. «Eppure...», si interruppe, guardando lei che riapriva gli occhi, «il vento sta cambiando da queste parti. E tu lo sai».
A quel punto lei si irrigidì e, prendendo fiato a narici spalancate, si accostò al tavolo, guardandolo con severità. «Se è vero che sta cambiando lo fa in meglio, agente Jonzz. Non è un pericolo per Kara».
«Così come non era un pericolo per i coniugi El?», le domandò, guardandola dritta negli occhi. «Come non lo era per Faora Hui?».
«Faora Hui è morta per complicanze dovute al coma», riprese lentamente, «E non osi neppure nominare la mia famiglia! Non faccia questo giochetto con me, agente-».
«Continua pure a ripeterti questa favoletta se ti fa sentire meglio», le parlò sopra, «ma tu ed io sappiamo bene qual è la verità e sai», alzò la voce un momento, «sai bene come nessuno può essere ritenuto davvero al sicuro. Pensaci... Astra». La notò deglutire. «Pensa attentamente a dove è riposta la tua fiducia quando uscirai di qui».
«... Sta... Sta di nuovo insinuando qualcosa, agente Jonzz?».
«No. Ti trovo bene, dico davvero». Si alzò e la donna ebbe un sussulto.
«A-Aspetti! Agente Jonzz, la prego», si lasciò andare a un sospiro quando lo vide fermarsi e girarsi ancora. «Posso chiederle un favore?».
«Un favore da me?».
«Non glielo chiederei se non ritenessi che è importante», ingerì saliva. «Mia nipote, Kara... può assicurarsi che stia bene? Connessione familiare, sa? Ho paura stia passando un brutto momento».
Lui uscì dalla saletta. Quella donna era chiusa come dietro spessi muri d'acciaio. Aveva perso la famiglia per conto delle stesse persone per cui ora avrebbe dato la vita e lo trovava fuori da ogni concezione. Il fatto che l'unica responsabile della morte degli El fosse Rhea Gand a John non bastava e non convinceva, soprattutto dal momento che la sua cattura era stata giostrata da Adrian Zod. E quella Gand, ancora più dura, preferiva fare scena muta agli interrogatori più che tradire quell'uomo. Ma come darle torto, pensò: non si sarebbe sorpreso nel sentire se fosse stata minacciata di morte. Davanti alle porte a vetri per uscire, si incantò nell'osservare la sua figura, tirando la giacca in avanti e alzando il mento. Non si sarebbe dato pace fino a quando non avrebbe portato dietro le sbarre di una cella ogni membro di quell'organizzazione, a cominciare proprio da Zod. Avrebbe ristabilito l'ordine delle cose. Uscì, scendendo le scale esterne. La storiella della connessione familiare era interessante: cosa sapeva Astra Inze, dentro Fort Rozz, che lui non sapeva? Le notizie dovevano girare veloci tra i membri dell'organizzazione. Tornò in auto e tolse la modalità aereo dal cellulare, scrivendo Kara Danvers su Google. Kara era famosa nell'ambito sportivo del continente, il nome Supergirl era conosciuto da chiunque si interessasse a sufficienza della materia, ma ultimamente, a causa del matrimonio delle signore Danvers e Luthor, era stata sotto i riflettori per riflesso e questo la rendeva bersaglio di gossip più o meno grandi. Non si stupì infatti di trovare notizie sul suo conto su piccole testate, ma di vederla affiancata a una parola come doping era un altro paio di maniche. John spalancò gli occhi, incredulo. «Danvers», chiamò al telefono. «Alex... Cos'è la storia di tua sorella e di queste pillole che gira sul web? Sì...», sospirò, «Sì, sono tornato ma sono ancora in vacanza ufficiale e tornerò presto a partire per... questioni private».
Alex strinse le labbra. Stava attraversando la strada e le sudavano le mani. Si fermò davanti a un'auto parcheggiata e si nascose appena poco sotto quando, sul marciapiede a pochi metri, Carina Carvex si voltò un'istante. Per poco non la sorprendeva seguirla. «Ho chiamato Kara e...». Allungò lo sguardo, osservandola parlare con un'anziana che vendeva frutta e verdura esposta fuori dal negozio. Alex si tirò il berretto verso gli occhi, assicurandosi, attraverso il finestrino vicino, che bastasse a darle un'aria diversa. «Non posso andare a trovarla, è a Metropolis in questo momento. Lei e Lena dovevano parlare con Lex di... queste pillole, in effetti. È una storia un po' lunga e adesso non posso trattenermi per telefono». La vide andarsene con due sacchetti pieni e si alzò per seguirla, usando i passanti per coprirsi, mentre ascoltava il suo capo quasi imprecare. «Emh, sì... è vero, ma non era doping! I giornali esagerano! Kara passava un brutto periodo e-», si zittì, alzando gli occhi al cielo e gonfiando le guance intanto che lo ascoltava, «No, non lo sapevo... Non era doping», insisté. Carina Carvex svoltò a una curva e Alex pensò bene di controllare il riflesso di una vetrina di un esercizio commerciale davanti prima di girare anche lei: la stradina era libera. Girò, trovando solo cassonetti e una puzza maleodorante. Dove poteva essere entrata? E se si fosse accorta di lei? Lo sperava bene, era un'agente, ma non lo sperava affatto per se stessa. «Mi auguro soltanto che questa voce smetta di girare. Le spiegherò meglio per email». Sospirò. «A quello... sì, ci sto lavorando proprio adesso, dunque... Benissimo. Si goda le vacanze». Chiuse la telefonata e selezionò il numero di sua sorella, ricominciando a camminare; era meglio non farsi trovare lì, in ogni caso. Stava squillando, squillava ancora, era tutta la mattina che ci provava. In realtà, non era per niente riuscita a sentire Kara dal giorno prima e, dopo ore che provava inutilmente, cominciava a preoccuparsi sul serio. Le inviò un altro messaggio, pensando che forse avrebbe dovuto sforzarsi per inviarne uno anche a Lena e parlare con lei. Si fermò e ansimò seccata, inquadrando con curiosità la vetrina di un negozio di elettronica. 

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