43. Anime rotte

729 37 5
                                    



La sveglia suonò tre volte. Un mugolio e dopo una mano pallida si sporse fuori dalle coperte per schiacciarla. La mancò. La mancò di nuovo, ma la mosse e cadde a terra. Il rumore fece sobbalzare la ragazza e si scoperchiò, sbadigliando rumorosamente: aveva tutti i capelli da un lato, le occhiaie e, si toccò un angolo della bocca, saliva secca. Brontolò, decise di alzarsi ma inciampò sulla sveglia, sbatté le ginocchia per terra e scacciò un urlo di rabbia, dandole un pugno, facendosi male di nuovo. No, proprio no. Prima un incubo ancora vivido nella mente dove un uomo la rincorreva per cercare di ucciderla, e ora questo. No, ripensò rialzando la testa dopo aver sputato il dentifricio sul lavandino e sbattendola contro il mobile rimasto aperto. Decisamente no. Siobhan Smythe non si sentiva affatto pronta ad affrontare la giornata, se quelle erano le premesse. Da quando Rhea Gand era stata rilasciata, dormiva sempre con un occhio vigile perché temeva mandasse qualcuno ad ammazzarla come aveva fatto con Kara Danvers. Dannazione, Danvers: lei era un ninja ed era riuscita a sfuggire a quel destino una volta, dunque avrebbe potuto proteggerla almeno al lavoro, e invece era ancora sospesa. Sentiva che sarebbe successo qualcosa di brutto; se lo sentiva nelle ossa. Ignorò i rumori dei camion che passavano sotto il suo appartamento e aprì una finestra solo per scacciare un piccione che si era adagiato sul davanzale, lasciandoci sopra un ricordino. Odiava quei dannati topi volanti. Dopo andò in cucina e aprì il piccolo e ammaccato frigo. Che desolazione: se non l'avesse fatta uccidere quella donna, ci avrebbe pensato la fame prima che si ricordasse di fare la spesa. Si preparò due fette di pane con ingredienti rimasti a caso, ed evitò a ultimo che una colata di mostarda le finisse sulle calze a rete. Mandò giù un morso dopo l'altro con ingordigia, ascoltando sulla tv, al telegiornale, un pezzo del discorso pre-campagna elettorale di Rhea Gand andato in onda ieri pomeriggio: la sala piena di invitati seduti intorno ai tavoli, la donna sul palco, affiancata dal sindaco che, chiaramente, la supportava.
«Il mio amato marito sognava questo percorso da quando era ragazzo e lo porterò avanti per lui».
«Bla, bla, bla. Mariticida», fece il verso, prima di mordere ancora la sua colazione.
«Mi impegnerò affinché le strade siano davvero sicure. Questa è la mia priorità».

Siobhan spense la piccola tv che doveva ancora ingoiare l'ultimo boccone, si assicurò di avere i denti puliti davanti allo specchio all'ingresso, e uscì di casa guardando avanti e indietro con apprensione; scese le scale e, avvicinandosi al portone dell'edificio, ricercò le chiavi della macchina in borsa.
«Buongiorno, signorina Smythe». Grembiule sporco di cibo legato in vita e al collo, il ragazzo del ristorante cinese sotto casa la salutò come ogni mattina, affacciandosi dalla porta sul retro.
E lei, come ogni mattina, si limitò a girare la faccia mentre continuava a camminare nel viottolo e a regalargli un forzato sorriso a labbra strette. Brontolò quando calpestò una cartaccia a terra e si riguardò di nuovo indietro, con la paura addosso. Lei sapeva della pistola. Sarebbe andata a cercarla, prima o poi. Deglutì e mise male un piede, inciampando sulle grate di un tombino. Cercò di tirarsi su, ma urlò quando capì che un tacco le era rimasto incastrato e che il ragazzo cinese stava correndo per soccorrerla. Le macchiò la borsa e mezzo cappotto con pezzi di carapace di gamberetti e per questo lo costrinse alla fuga picchiettandolo con la scarpa non appena lui riuscì a liberargliela. «Tu e i tuoi gamberetti orientali», urlò nel vicolo. Si rimise la scarpa e per poco non sbandò contro un motorino parcheggiato, mettendo male un piede. Si accostò all'auto bianca e avvertì dei passi che si avvicinavano. Oh, no. Era lì per lei. Era successo, alla fine. A chi avrebbe assegnato la sua scrivania Cat Grant? Era dietro di lei. Adesso. Urlò. Si voltò velocemente e con forza gli sbatté la borsa in pieno viso. Lui ondeggiò e imprecò dal dolore; non paga, Siobhan afferrò lo spray al peperoncino da una tasca e, mostrandogli tutti i denti, più agguerrita che mai, glielo spruzzò sugli occhi senza provare pena. «Nessuno si prenderà la mia scrivania, è chiaro?».
Cat Grant la fissò, una volta alla CatCo; gli occhi che si stringevano in due fessure.
«La polizia mi ha lasciato andare alle nove e mezza passate, non è colpa mia», sventolò una mano. «Uscito dall'ospedale ha detto che ritirerà la denuncia e sarei più felice se lo facesse perché ha capito come abbia agito per legittima difesa, ma teme che lo maledica», spalancò gli occhi, guardandola grave. «Come potevo sapere che era il proprietario di quella stupida moto? Mi ha chiamato banshee, ci crede? Doveva pensare che non sapessi cosa significa, ma nessuno mi dà del mostro solo perché-».
«Siobhan», la richiamò con voce dura, zittendola all'istante. «Che qualcuno maledica me se dovessi mai azzardarmi di nuovo chiederti il perché di un ritardo». Roteò gli occhi e la lasciò alla sua scrivania con la sua evidente voglia di chiacchierare.
Siobhan Smythe però sapeva che stava per succedere qualcosa, se lo sentiva nelle ossa. Guardò verso la finestra e deglutì, prima di iniziare a lavorare.

Our homeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora