31. Sorelle

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Kara bussò con decisione e attese solo pochi secondi che Alex, come fosse già dietro la porta ad aspettarla, le aprì andandole incontro per un abbraccio; poi la sollevò di peso e la trascinò dentro, chiudendo la porta con un calcio. Ansimò, guardandosi intorno in casa della sorella, dal piccolo soggiorno all'ingresso per la cucina, quello per la camera e il bagno, il piccolo balcone. Appoggiò la borsa a terra. «Sei sicura che posso restare?».
«Una notte e due giorni, Kara. Ti rapisco solo per il weekend, tornerai in tempo per le lezioni. Maggie e Jamie saranno dai genitori da questo pomeriggio, io sarei comunque rimasta tutta sola».
L'abbracciò di nuovo, dalle spalle, poi le disse di lasciare la giacca sull'appendiabiti. Kara non faticava a immaginare come mai le avesse chiesto di stare a casa sua per il weekend: lei e Lena si erano lasciate, e sul serio questa volta, e come una buona sorella maggiore si preoccupava per lei. Dopotutto, era quello che Alex aveva sempre fatto. 

«Cosa?», aveva gridato Alex, tirandosi indietro una lunga ciocca di capelli castani. «State adottando una bambina? Verrà qui?». Aveva rincorso sua madre e suo padre per tutta casa, con il fiato corto e il cuore in tachicardia.
«No, Alex, resterà fuori in giardino», aveva ironizzato una giovane Eliza dando uno sguardo a Jeremiah al suo fianco, che aveva sorriso.
Così l'uomo si era girato e aveva provato a prendere sua figlia da parte, poggiandole le mani sulle spalle gracili. «Ehi, bambina mia, andrà tutto bene. Okay? Questo non cambierà quello che io e tua madre proviamo per te e non cambierà in alcun modo la tua vita. Te lo prometto».
Lo aveva promesso, certo, ma Alex in fondo sapeva che quella era una promessa che non poteva mantenere perché niente di tutto ciò avrebbe dipeso da lui. Quando per la prima volta quella bambina aveva messo piede in casa sua, Alex si era assicurata di guardarla nel modo più acido che riuscisse e di sbatterle la porta della sua camera in faccia. La porta della sua camera che presto avrebbe dovuto condividere con lei. Per dispetto le aveva rovesciato il materasso e messo tutte le sue cose sul pavimento, ma non era riuscita a fare altro che farsi sgridare da Eliza. Sua madre infatti lo aveva rifatto e poi aveva preso lei in disparte, in cucina, in modo che la lezione non le sfuggisse.
«Devi darti una calmata, ci siamo capite? Kara è tua sorella, adesso, e ti prego, ti prego, Alex», l'aveva implorata, «niente più dispetti, cerca di accettarla. Nessuno ti costringe a volerle bene da un giorno all'altro, ma devi almeno accettarla». L'aveva guardata con insistenza fino a quando non aveva aperto bocca.
«Va bene», aveva detto tirandosi indietro i lunghi capelli, accompagnando uno sbuffo, «Niente più dispetti».
Niente più dispetti, sì, ma nessuno l'avrebbe potuta obbligare ad accettarla davvero come sorella. Quella Kara era un'estranea ma, fin da subito, era riuscita a prendere la completa attenzione di Eliza e Jeremiah per qualsiasi cosa: l'accompagnavano a scuola a turno, quando per lei non si erano più disturbati a farlo dall'età di otto anni, perché a detta loro esistevano gli autobus; le preparavano le sue merende preferite e si assicuravano che non mancassero mai, quando lei, per chiedere dei cereali specifici, aveva dovuto aspettare Babbo Natale; se era Kara ad aver bisogno di qualcosa si precipitavano, mentre lei poteva restare a chiamarli per ore e ore che non sentivano. Era la loro vera figlia, accidenti: doveva passare in secondo piano? Insistevano perché Kara fosse la loro nuova figlia, ma lei non era neppure capace di chiamarli mamma e papà, perché doveva venire prima di lei?
«Dillo», le aveva puntato contro un dito una sera, stufa di sentirla chiamare i suoi genitori con i nomi propri. «Devi dirlo».
«No», aveva aggrottato la fronte l'undicenne, seccata che cercasse con ogni mezzo di obbligarla.
«Devi farlo, accidenti», l'aveva sgridata. «Adesso abiti qui, sei loro figlia, ti hanno adottata, quindi devi chiamarli mamma e papà», l'aveva bloccata davanti a una porta, «Hai capito, Kara? Devi farlo, per forza».
«No», aveva mugugnato cercando di spostarla da mezzo per passare, «Non lo farò! Smettila».
«Alexandra Danvers!». Eliza aveva gridato come non accadeva spesso e il fatto che l'avesse chiamata con il nome per intero poteva solamente significare che era davvero arrabbiata. «Possibile che tu non capisca?! Lasciala in pace».
Per quanto si sforzasse, Alex davvero non capiva e non capiva perché continuassero a difenderla e attaccare invece lei. Eliza e Jeremiah si facevano in quattro per Kara e quella mocciosa non era neppure capace di ricambiare il loro affetto nel modo più semplice possibile, chiamandoli come una figlia qualunque avrebbe fatto. Si premuniva sempre di ribadire più volte il mamma e papà in presenza di Kara solo per darle fastidio; un modo come un altro per rimarcare quanto, in fondo, non sarebbero mai state vere sorelle.
E da che Alex ricordava, allora il tempo era volato: un giorno qualunque una bambina era entrata nella sua vita, e il giorno dopo aveva già quasi quattordici anni ed era pronta per il suo primo giorno di liceo. Il suo liceo. Alex doveva frequentare l'ultimo anno e aveva odiato con tutte le sue forze l'idea di averla nella stessa scuola con lei, fosse anche solo per un unico anno scolastico. Alex aveva una reputazione da mantenere e Kara era strana, sempre per le sue, per la sua età guardava ancora i cartoni animati e si vestiva con salopette ricamate con delfini stile cartoon: di certo non avrebbe voluto che qualcuno l'associasse a lei.
Quella mattina, Alex si era vestita con fretta e furia, aveva mangiato qualcosa al volo ed era uscita di corsa per prendere l'autobus, senza aspettare la sua sorellina, come le aveva invece raccomandato di fare Jeremiah, che era ancora a casa a quell'ora. Prima di uscire dalla loro camera, aveva intravisto Kara tirare fuori dall'armadio una grossa gonna senza personalità che le sarebbe arrivata a metà gamba e una camicia a pallini: di certo non avrebbe voluto sedersi vicino a lei sul bus. Non l'aveva aspettata neanche all'arrivo: era uscita veloce spostando gli altri studenti e si era precipitata dentro la scuola, ricercando il suo gruppo di amiche in tempo per lamentarsi di quanto facesse schifo la sua vita da quando Kara era nella sua casa. Stavano aspettando che la campanella suonasse chiacchierando e salutando i ragazzi per il corridoio quando un'amica alla sua destra l'aveva richiamata per dirle:
«Ehi, Alex, ma non è tua sorella, quella?».
Lei si era girata mancandole il fiato e il suo corpo si era gelato, infine, spalancando gli occhi, nel momento in cui l'aveva inquadrata: calze a rete sopra stivaletti col tacco e borchie, minigonna a righe, magliettina bianca e nera, corta tanto le lasciava fuori l'ombelico, i capelli sciolti raccolti da un lato. Quella non era sua sorella: era un mostro che aveva frugato nel suo armadio. Immediatamente le si era scagliata contro, spingendola verso gli armadietti. «Cosa ti sei messa addosso? Ma non provi nemmeno un po' di vergogna ad andare in giro in questo modo?», l'aveva sgridata a bassa voce quando si era accorta che alcuni ragazzi si erano girati a guardarle.
«Tu vai in giro in questo modo».
«Io posso. È roba mia, vatti a cambiare».
«Non ho altro».
«Torni a casa e ti vai a cambiare», aveva insistito. «Ti guarderanno tutti».
«Lasciami stare», l'aveva spinta con una spallata e si era rimessa a camminare e, Alex l'aveva guardata attentamente, era quasi sul punto di cadere perché non abituata ai tacchi.
Un ragazzo l'aveva fermata a pochi metri da Alex e l'aveva fischiata, guardandola a lungo e poi chiedendole come si chiamasse. Alex si era sentita sprofondare a vederla squadrata in quel modo dai ragazzi ma non sapeva cosa fare se non chiamare suo padre che la venisse a prendere da scuola; così stava per muoversi che, all'improvviso, aveva sentito Kara rifiutare quel ragazzo e lui insistere. Oh, a quel punto forse avrebbe dovuto- Aveva visto Kara fermarlo per un braccio e gettarlo con una spinta contro gli armadietti, tanto forte che lui aveva sbattuto una spalla e aveva detto di essersi fatto male. Così si era allontanato e lo stesso tutti quelli che erano rimasti a guardare la scena; anche Kara, poco dopo, se n'era andata per conto suo, storcendo una caviglia ad ogni passo.

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