40. Caro Diario

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Caro Diario,
L'ho rivista questa mattina. Veramente ci siamo salutate, mi ha anche sorriso ed è stato bello. È bello che sappia della mia esistenza. Non mi aspetto molto altro, anche se
Aveva smesso di scrivere, ascoltando dei rumori fuori dalla sua finestra.
anche se siamo nella stessa classe di letteratura e informatica da un anno e mezzo e abbiamo fatto le stesse scuole. Non può ricordarsi di tutti, giusto? Probabilmente non ricorda di quando le ho prestato un libro, né dei soldi della merenda, o di quando a pallavolo
«Uff», aveva smesso di nuovo, poggiando la penna da un lato del foglio e, con faccia imbronciata, portarsi una mano in fronte. «Davvero non si ricorda di me?».
Sai che c'è, caro Diario? Alla fine chi se ne importa. Io ho una cotta stupida e lei ha un ragazzo, neanche uscirebbe con una come me. Neanche io uscirei con una come me.
Aveva poggiato di nuovo la penna e chiuso il diario, ascoltando di nuovo i rumori fuori dalla finestra della sua stanzetta. Una macchina si stava avvicinando. Sì, era quella giusta. Aveva lasciato la scrivania e corso fuori dalla camera, percorrendo le scale verso il piano inferiore, con un pronto sorriso stampato sul viso. La porta si era aperta e un uomo alto e un poco brizzolato era entrato: il tempo di chiudere dietro di lui, che la ragazzina gli era saltata addosso, tutta eccitata. «Com'è andata a lavoro? Hai arrestato dei criminali? Ti sei appisolato nel tuo ufficio? Ti hanno portato le ciambelle?».
Lui aveva riso e se l'era scrollata di dosso con qualche difficoltà, rimettendola a terra e sistemandole la salopette. «Cos'è che si dice per prima cosa quando papi torna a casa?».
«Bentornato a casa, papi».
«Brava la mia bambina», le aveva strapazzato le guance là dove si formavano le fossette e lei si era tirata indietro.
«Non esagerare, ho quasi quindici anni».

«Sei tu quella che mi è saltata addosso». L'uomo aveva lasciato il cappello all'ingresso insieme al giaccone bianco, ed entrando in cucina con la figlia a seguito aveva risposto prontamente punto per punto a ogni sua domanda, compresa quella sulle ciambelle.
«E i criminali erano criminali veri con le pistole?».
«Il solito ubriaco», si era seduto stanco su una sedia vicino al tavolo in cucina, mentre sua moglie si era spostata dai fornelli solo per dargli un bacio. «Siamo in paese, mija. Non è come essere a Gotham, qui la criminalità te la devi quasi cercare», aveva ridacchiato e la figlia lo aveva guardato confusa.
«Allora torniamo a Gotham! Mi piaceva stare lì».

«Ti piaceva perché eri poco più che in fasce, ecco perché», aveva scherzato sua madre.

La giovane Maggie aveva messo su una smorfia, seccata, poco prima di riguardare sua padre e sorridere di nuovo, eccitata. «Beh, chi se ne frega di Gotham, qui sei diventato sceriffo! Hanno capito il tuo valore». Lo aveva abbracciato ed era tornata di sopra, intanto che sua madre le gridava che era quasi pronto per cena. Il tempo di superare il penultimo scalino che le risa di suo padre l'avevano bloccata, sedendo lì solo per ascoltare.

«Cosa? Anche qui?», aveva sentito chiedere sua madre, starnazzando.
«Sì, sì... Ero al comune per sbrigare delle cose, salutavo degli amici, e spuntano questi froci all'improvviso, in branco come animali e vestiti da pagliacci, sai, tutti colorati da froci, per chiedere il permesso di sfilare».

Maggie aveva stretto le labbra, continuando ad ascoltare.
«Ma basta, non se n'è può più! Qui siamo tutti cristiani, non basta che queste pagliacciate le fanno in città, non sono mai contenti», aveva replicato sua madre con una punta di acidità nella voce. «Dio li punirà».

Suo padre aveva ridacchiato ancora. «Ma lasciali perdere, che sono malati, quelli. Non volevo parlarne davanti a Maggie».
«Certo, è giusto. Ci manca solo di essere influenzata da quelli là».

Aveva sentito abbastanza: si era tirata su con forza ed era tornata in silenzio in camera sua, prima che continuassero a parlarne. Già, non dovevano farlo davanti a lei, che era nell'età dello sviluppo e sia mai che avessero potuto contagiarle quella orribile malattia. Ah, ogni volta che li sentiva parlare di quello, le faceva male qualcosa dentro. Da quando aveva capito che le piaceva una sua compagna di scuola, era stata una lotta continua con se stessa. Era normale provare una cosa del genere per una ragazza, essendo lei stessa una ragazza? Non aveva dovuto chiedere ai suoi genitori per sapere cosa ne pensassero, le era chiaro da sempre, e anche la televisione diceva che era sbagliato, e le riviste. Un'insegnante a scuola però era stata di un'opinione differente, cogliendo l'occasione di far tacere due ragazzi che prendevano in giro un loro compagno per parlare di omosessualità. Era allora che quel sentimento aveva trovato un nome. L'insegnante era riuscita a convincerla che non ci fosse nulla di male in ciò che provava ma, da quando lei era stata trasferita, le cose si erano di nuovo fatte difficili. Poteva davvero considerarsi una persona normale? Era una domanda che la tormentava da tempo.
Caro Diario,

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