Capitolo 39

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La velocità del treno non la spaventava, anzi, non la sentiva proprio. I rumori attorno a lei, infatti, le arrivavano tutti tremendamente ovattati, lontani parecchi chilometri di distanza. Soltanto il dolore che provava nel corpo e nell'anima era vicino, le era addosso. Ogni graffio, ogni livido, ogni ferita sulla sua pelle non si sarebbe mai rimarginata completamente. Non era il sangue secco dovuto ad una caduta, ad una strana scivolata che faceva da bambina quando, insieme ai suoi genitori, correva per le strade del suo quartiere a Pietrogrado.

Raissa provò a sfiorare con un dito le labbra, gonfie e violacei da un lato, e storse le labbra in una espressione dolorosa. Ogni parte del suo corpo sembrava ribellarsi anche al proprio di tocco. Era stanca. Tremendamente stanca. Ma non voleva dormire, aveva troppa paura di chiudere gli occhi e ritrovarsi ancora prigioniera di quel tedesco assassino.

Aveva paura, esattamente come quelle paure che le venivano da bambina. Anche allora, sua madre, aveva tentato di rassicurarla e in poco tempo aveva trovato un rimedio più che efficiente. Le si sedeva accanto, nel letto, e poggiando una mano sulla sua testolina bruna, iniziava ad intonare una ninna nanna in russo. Lenta, malinconica e a tratti triste. Nel mentre sentiva il vento entrare dalla finestra del treno, che continuava ad andare a tutta velocità, Raissa mosse piano le labbra. Dapprima non uscì nessun suono, ma poi, con un po' di sforzo, riuscì ad intonare qualcosa.

"Баю Баюшки Баю. Не ложитесь рядом с краем кровати. Серый волк придет. И схватить тебя..." Sembrava quasi un sussurro, una preghiera, ma parola dopo parola, le sembrò di materealizzarsi nei ricordi, nella sua stanzetta, nel loro appartamento nel Corso Neva.

Iniziò a dondolarsi da sola, con due lacrime che scivolarono dai suoi occhi, procurandole solo bruciore per quante ne erano uscite nei giorni precedenti e per le percosse ricevute. Pensò a sua madre, pensò a suo padre... e ribollì d'ira e dispiacere enorme nel pensare a come, quel verme di un tedesco, gli aveva derisi e offesi per le loro origini. Lei era sempre stata fiera di essere di sangue ebreo, non ne sarebbe mai vergognata.

"Cambia te stessa, ma mai le tue origini, bambina." Le parole della sua Bábuška, le tornarono prepotentemente in mente, come a ricordarle che il suo spirito era sempre con lei, come molte volte le aveva detto da bambina.

Si concesse il lusso di un singhiozzo, ben sapendo che le avrebbe procurato solo altro dolore al viso e al suo respiro. Si strinse, rannicchiandosi ancora di più per ripararsi dal freddo, e continuò a cantare con il suo bellissimo accento della sua lingua madre.

Non sdraiarti vicino al bordo del letto. Verrà il lupo grigio e ti afferrerà per il lato del collo. Ti afferrerà per il lato del collo e ti trascinerà nella foresta. Giù, sotto un arbusto di salice. Non venire mostro, non svegliare Raissa. Non sdraiarti vicino al bordo del letto. Verrà il lupo grigio e ti afferrerà per il lato del collo.

"Он схватит тебя за твою крошечную сторону. И тащить тебя в лес." E continuò a cantare fino a quando ebbe la forza per farlo.

Il respiro, però, iniziò a venirle sempre meno e fu costretta a fermarsi. Raissa pianse in silenzio, come per paura di svegliare qualcuno. Ma lì con lei non c'era nessuno. C'era solo lei con i suoi fantasmi, e i suoi traumi.

Dopo un'ora e mezza decise di mangiare il pezzo di pane secco e duro che Paulne le aveva fatto avere, insieme a mezza bottiglia d'acqua, in un vetro polveroso. L'unico che non destasse dubbi o domande. Se mentre veniva trasportata nella carriola, avvolta dal tappeto, i tedeschi li avrebbero fermati per chiedere dove andassero, sarebbe stato difficile spiegare del perché avevano del pane e dell'acqua. Così Paulne le aveva messo solo quello vecchio, quello destinato ai cani, e come bottiglia ne aveva usata una impolverata che poteva contenere anche altro.

Quante gocce nel mio mareDove le storie prendono vita. Scoprilo ora