45 - Gone

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«Mr White è andato addosso all'altro ragazzo, Nathan Parker, che è arrivato qui già senza vita. Temiamo che le sue critiche condizioni, miste al quadro clinico già preoccupante, non gli lascino molto tempo per vivere. Ha subito una paralisi totale di tutta la parte del corpo dalla vita in giù, la motilità delle braccia non è certa, il collo è sicuramente immobile. Al momento, non è cosciente e non abbiamo certezze a riguardo... Potrebbe rimanere così per ore, giorni, settimane... La voce di una persona cara aiuta la psiche, in certi casi. Le consiglio di provare a parlare ed essere molto cauta nei toni, Miss Ward.» mi informò il dottore.

Non so per quanto tempo rimasi lì, immobile, a fissare la persona che amavo sdraiata su un lettino, con tubi infilati ovunque, un respiratore alla bocca, le palpebre abbassate. Mentire a me stessa non serviva: era conciato male, davvero male. Nonostante le mie speranze lo vedessero ancora vivo e vegeto, pronto a riabbracciarmi, la mia ragione mi spinse ad accettare la realtà e salutarlo per sempre.

A meno di un metro da me, c'era un ragazzo giovane, forse anche lui della mia età. Alto, con i capelli castani che gli ricadevano sulla fronte in un ciuffo, il naso perfettamente dritto lungo il profilo e le labbra dal volume visibile, nascose le lacrime fino al momento in cui si passò una mano sul volto e lo sentii tirare su col naso. Conosceva Eric?

Batté un pugno lieve ma rabbioso contro il vetro e l'infermiere che passò nel nostro corridoio accorse per placarlo.

«Calma, calma. Quel paziente non ha bisogno di altri shock.»

«Avrebbe bisogno di morire! Ha ucciso mio fratello, cazzo! Lo sa cosa vuol dire?! Mio fratello. Sangue del mio sangue. Se l'è preso questo stronzo, che rimane ancora appeso alla vita grazie ai tubi.» esplose il ragazzo «Nathan... Ha ucciso Nathan... Mio fratello, il mio adorato fratello...»

Il suo pianto riempì il corridoio di disperazione, lutto, singhiozzi e rabbia. Tanta rabbia.

«Ragazzino, tuo fratello ha tagliato la strada al ragazzo in quella stanza. Non farti offuscare la mente dal dolore.» consigliò l'infermiere.

Il ragazzo fissò Eric, quindi posò lo sguardo su di me. Dopo un lungo istante, si voltò e se ne andò di fretta e furia.

Decisi che era il momento di entrare nella stanza di Eric.

Aprii la porta della stanza e me la richiusi alle spalle, camminando lentamente fino al lettino. Presi posto sulla sedia al suo fianco e la avvicinai, cercando di non ostacolare i tubi. Presi la mano di Eric, dalla pelle ancora giovane e levigata, e vi posai un bacio sopra.

«Ciao, amore mio. Mi si spezza il cuore ad incontrarti qui, ma... Non è colpa tua, tu sei sempre stato buono e generoso. Fin troppo, per questo pianeta. Adesso ti racconto come sarebbe dovuta andare: tu saresti arrivato sano e salvo davanti alla mia scuola, avresti attirato la mia attenzione spostandoti gli occhiali da sole e sistemandoti la tua gloriosa giacca di pelle, mi avresti portata in quel posto speciale con della musica estiva in sottofondo, quella che ti fa venire voglia di ballare e guidare una decappottabile, così che i capelli vengano scompigliati dal vento. Avresti aperto la porta del ristorante per me, avresti chiesto dov'era la nostra prenotazione e mi avresti spostato la sedia, assicurandoti che fossi comoda e seduta come piaceva a me. Avresti cominciato a tirare fuori gli argomenti più disparati, perché quando sei agitato cerchi di puntare l'attenzione altrove ed ogni diversivo è buono, in quel momento. Mi avresti guardata negli occhi, mi avresti chiesto se sono felice. Se mi rendi felice. E io ti avrei risposto di sì. Ti avrei confermato che nessuno è capace di farmi sorridere l'anima come fai tu, di farmi dimenticare tutti i problemi come fai tu, facendomi venire soltanto una gran voglia di fare l'amore con te.»

Mi si spezzò la voce.

«Avrei voluto andare al mare con te, rotolarmi nella spiaggia avvinghiata al tuo corpo, oppure fare escursioni in montagna e costruirci un letto con rami e foglie. O, ancora, saremmo potuti andare per musei, anche se l'opera d'arte saresti sempre stata tu. Come faccio, adesso, ad accettare che non ti avrò al mio fianco a darmi consigli logici e coerenti quando mi sento persa? Avevo in mente così tante idee... Quel giorno, sarei dovuta correre a comprare una macchina fotografica, a costo di litigare con mia nonna, e scattarti tutte le foto che adesso non posso scattare. Avrei dovuto realizzare che la vita è effimera, un giorno c'è e quello dopo, improvvisamente, non più. Che mi avresti lasciato un vuoto grande come un cratere dentro. Che ogni briciolo di tempo è fondamentale e, a discapito di tutte le punizioni che mi avrebbe potuto infliggere mia madre, avrei fatto meglio a trascorrerlo con te. Mi hai insegnato così tanto in così poco tempo... E non mi hai dato neanche l'occasione di ringraziarti. Come puoi chiedermi, ora, di dirti addio? Con quale forza?»

Rimasi lì, a piangere, a sfogarmi, a raccontare... Finché non calò il sole. A quel punto, mia madre bussò ed entrò per annunciarmi che era ora di tornare a casa.

«E se si svegliasse? Io non sarei qui.» obiettai.

«Tesoro... Il dottore mi ha assicurato che le sue condizioni sono piuttosto stabili. Domattina ti riporto qui per salutarlo ancora, ma devi dire addio anche ad un'altra persona.» rispose lei, oggettiva.

Mi fidai e tornai a casa, ma non riuscii a mandar giù nulla. La mia mente ripercorse infinite volte l'intera giornata, dalla gioia che mi aveva dato il buongiorno alla disperazione che mi stava accompagnando nella buonanotte, e poi diede il via al replay di una marea di ricordi. Scoppiai a piangere più volte, mi addormentai con gli occhi rossi e gonfi, la pelle del viso irritata.

Mio padre non seppe come reagire, quando mi presentai in cucina la mattina seguente con quell'aspetto tormentato.

«Sicura di non volerti fare una doccia? Ti preparo qualcosa per colazione, se vuoi.» si preoccupò.

«Non credo che mangerò, ma una tazza di tè mi farà sicuramente bene.» annuii.

Tornai su e mi presi del tempo per una doccia molto lunga. Quando uscii, sentii che mia madre stava conversando con il preside della scuola, spiegandogli del duplice lutto che stavo vivendo e che, se possibile, un po' di comprensione e clemenza sarebbero stati graditi.

Non avevo voglia di fare niente, né di vestirmi, né di asciugarmi i capelli... Esclusi il trucco a priori, tanto avrei pianto come una fontana. L'unica cosa che avrei trovato confortante sarebbe stato molleggiare in vasca, una perfetta rappresentazione della mia vita: il mio corpo che non voleva affondare nonostante tutto il dolore in cui ero immersa.

Mia madre comprese che non ero ben cosciente della realtà intorno a me e mi asciugò i capelli. Scelse dei vestiti per me, mi abbracciò e mi chiese se c'era qualcos'altro che desiderassi. Mi propose anche una fermata da Buttery per ricaricarmi di zuccheri, ma quella era una tradizione che avevo con Matthew e, anche se si trattava di mia madre, evitai di romperla.

Sorseggiai con lentezza estenuante il mio tè, masticai macchinosamente qualche biscotto e mi dichiarai pronta per andare. Non aveva senso indugiare oltre.

Arrivammo in ospedale poco prima che Eric smettesse di lottare per vivere.

Gli restai accanto per una quarantina di minuti, desolata, prosciugata di ogni traccia di positività ed energia, completamente priva di un obiettivo che non fosse accarezzargli la mano e baciarla, pregando che continuasse a respirare.

Avevo guardato fin troppi film per non riconoscere il segnale che proiettava il monitor del battito cardiaco quando il cuore smetteva di collaborare. Urlai che c'era un'emergenza in corso, che dovevano rianimarlo, che qualcosa andava fatto. Non lo potevano abbandonare lì così.

Mi spinsero fuori dalla stanza. Ci fu un gran movimento, mentre io ero divorata dall'ansia, dalla paura che non potessero aiutarlo, che non ci fosse più niente da fare.

Quella fu una delle poche volte in cui non volli avere ragione, nonostante fosse proprio così.

Che cosa avrebbero mai potuto inventarsi per salvare qualcuno che era ormai scivolato giù da un dirupo? Aspettavamo tutti solamente il tonfo che confermava la sua morte. E, per quanto facesse male, per quanto soffrissi nel prendere coscienza che Eric non mi avrebbe mai più guardata negli occhi, sapevo molto bene che sarebbe andata a finire così.

Mi aveva preparata lui stesso a dirgli addio. Come si suol dire, però, "tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare".

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Un minuto di silenzio per Eric.

Baci 💙

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