Capitolo 30

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«Chi è Adeline?» si chiese Katherine ad alta voce. Incuriosita da quella misteriosa lettera datata anni prima.

Jade la sentì, sentí quel nome che non sentiva pronunciare ad alta voce da fin troppo tempo.
Quel nome che aveva smesso di dire, ma che mai aveva dimenticato.
Le si avvicinò convinta di aver sentito male, che fosse il suo cervello a giocarle un brutto scherzo.
«Kat... cosa hai det-» appena fu abbastanza vicina da vedere quella lettera tra le sue mani,  si bloccò.

Il mondo le cadde addosso dandole le vertigini. Le bruciava la gola. La realtà le girò attorno, nauseandola.
Un'esplosione di emozioni e domande distrusse il suo fragile senso di presente.
Tutte le cose che aveva cercato di seppellire, che si era convinta di aver superato, stavano bruscamente squarciando la superficie.

Senza una parola e con uno sguardo orrificato le prese la lettera di mano.
Le dita le tremarono a contatto con la carta stracciata.
Una morsa al cuore la terrorizzò quando vide con i propri occhi le parole che si era convinta di aver scordato. Tutti i suoi demoni presero vita dando il via alla caccia.

I ricordi le offuscarono la vista, uno più doloroso dell'altro, strappandola via dalla realtà.
Sudó freddo, la sua carnagione pallida, prese tratti cadaverici.
Il dolore ebbe solo un istante prima di mutarsi in rabbia, ed infine odio, un odio indistruttibile, che non l'aveva mai lasciata, che era cresciuto come una parassita dentro di lei, insieme a lei.

L'universo intero le esplose nelle orecchie, cercando una via d'uscita fuori dalla sua pelle.

Katherine spaventata rimase immobile davanti al volto glaciale dell'insegnante.
In un impeto West le fu addosso, strattonandola per i vestiti.
«Dove l'hai presa? Non devi toccarla!
Chi cazzo ti ha dato il permesso di toccarla!» sbraitó furiosa, spingendola violentemente al muro. Sfogandosi su di lei, l'unica presente da incolpare, l'unica contro cui rigettare il proprio l'odio.

Gli occhi dell'alunna si riempirono di lacrime sotto il tocco della violenza. Perse l'equilibrio sbattendo alla parete e cadendo a terra.
Terrorizzata dalla paura di essere picchiata di nuovo si raggomitoló, piangendo, persa nel proprio senso di sopravvivenza, tra lo stupore e la confusione.
Solo dopo, West, tremante, si rese conto di ciò che stava facendo, ritrovandosi sopra alla ragazza, con l'impulso irruento di colpirla, di distruggerla.
Spaventata da se stessa, da quell'esplosione incontrollata, West corse via. In un impeto rabbioso distrusse i cavalletti e quadri sulla sua strada, scaraventandoli per aria.

Valentine esausta si accovacciò al suolo, chiudendo gli occhi esausti. Fece ciò che aveva imparato a fare quando le emozioni brutte erano troppe; chiuse gli occhi e si spense, addormentandosi, fuggendo in qualche universo lontano.

West prese boccate d'aria, uscendo nel balcone portante. Concentrandosi sul respiro, cercò di riportare la propria mente alla calma.
Sopprimendo quella valanga di emozioni, provando a rispingerle da dove erano arrivate, alla ricerca di lucidità.

Eppure la lettera tra le sue mani la rendeva pesante, le faceva bruciare gli occhi.
Si impose di non piangere. Non avrebbe pianto, erano anni che non succedeva, erano anni che la tristezza non esisteva in lei, che non la toccava direttamente, e per puro orgoglio non l'avrebbe lasciata uscire.

Si appoggiò al cornicione del balcone, lasciando che la testa le cadesse in petto.
«Cazzo! Che cazzo ho fatto!
Ho esagerato. Devo calmarmi.
Puttana troia! Cazzo! Cazzo!» tirò un pugno alla sbarra in ferro sbucciandosi la mano.
Non provò dolore.
Il fiato le mancava nei polmoni per quanto imprecava forte.
Ogni muscolo del suo corpo tremò, contorcendosi rapidamente, invadendola di un dolore fisso.

«Non posso avere una crisi, non ora.
Oh, ahahah...» rise isterica.
«Col cazzo troia. Non cado. Non cado.
Non dopo quello che mi hai fatto, non dopo tutto questo tempo.
Ho smesso, ho smesso, ho smesso...» si ripeté maniacalmente, tra i singhiozzi isterici.
«Ho smesse di essere debole...» un sussurro flebile.

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