CAPITOLO 29

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[Questo capitolo è scritto dal punto di vista di Elijah. Leggerete tutte le sue emozioni, le sue paure, i suoi rimpianti. Pronti?]



Il sole sta sorgendo, ma sono sveglio da tanto tempo, ormai. Anzi, credo di non essermi mai addormentato davvero.

Lena ha la testa poggiata sul mio petto e dorme profondamente. Le passo delicatamente una mano tra i capelli, stando attento a non svegliarla.

Fino a ieri, non riuscivo a capire perché continuasse a tornare da me, dopo tutto quello che le ho fatto. Non me ne capacitavo, perché finivo sempre per rovinare i momenti più belli. Mi ha aiutato con Patel, ha speso i suoi soldi per pagare il mio debito. E io cos'ho fatto? L'ho trattata male, le ho urlato contro, senza neanche ringraziarla. Non volevo che mi aiutasse e non lo voglio tuttora, ma non perché non lo apprezzi, ma perché ho troppa paura di perderla. Ci sono andato vicino tante volte e ieri...ieri me ne sono reso davvero conto.

Quando mi ha dato dell'assassino perché aveva avuto un aborto, mi sono sentito davvero un mostro. Un demonio. Ed è stato in quel momento che è successo qualcosa, dentro di me. Si è spento un interruttore, che mi teneva collegato all'oscurità, alla malvagità. All'inferno. E si è accesa una luce. Una luce calda e incredibilmente luminosa.

Ho pensato a Emily. È mia sorella, ma l'ho cresciuta io ed è come se fossi suo padre, più che suo fratello maggiore. E perderla, per me, sarebbe come morire. Aveva tre anni, quando ho iniziato a occuparmi di lei, dopo essermi ripreso dall'incidente. All'epoca non ero così. Avevo i miei momenti bui, sì, ma non così tanti come oggi.

Emily non sapeva parlare. O meglio, non ci riusciva per via dell'autismo. Un giorno, la infilai nel seggiolone e mi sedetti davanti a lei. Ero determinato a farle dire il suo nome. Ci avevo provato e riprovato, ma non aveva funzionato. La sua logopedista mi aveva detto che, molto probabilmente, non ce l'avrebbe mai fatta. Ma sono sempre stato un cocciuto cronico e non le ho dato retta.

Ricordo che Emily mi guardava, con i suoi occhioni verde chiaro e un piccolo sorriso sulle labbra. Era la bambina più bella che avessi mai visto. Ma nostro padre voleva costringerla a una vita terribile, chiudendola per sempre in un istituto.

L'incidente lo causai io, quella notte di dieci anni fa. Ero furioso, perché avevo appena litigato con lui per la storia di Emily. Uscii di casa con la sua amata Porsche 911, determinato a distruggerla. Lui preferiva quella stupida auto a sua figlia e volevo fargli capire cosa avrei provato io, se mi avesse portato via mia sorella. Solo che le cose non andarono come previsto. Quando decisi che era il momento di schiantarmi contro un albero, ero intenzionato a scendere dalla macchina prima dell'impatto. Ma un cane attraversò la strada e, per schivarlo, colpii prima l'albero, per poi venire investito da un tir. Secondo i paramedici, sono morto sul colpo. E, in quel lasso di tempo, ho sognato di essere in un immenso prato verde. Si stava bene. C'era una pace che mai avevo provato in vita mia. Sarei voluto restare lì per sempre.

Iniziai a sentire una voce che mi chiamava per nome e poi apparve lei. Una ragazza con dei lunghi capelli scuri, occhi nocciola e un sorriso incredibile. Mi disse: "Che ci fai qui? Devi andartene". Le chiesi perché e rispose: "Perché c'è ancora qualcuno che ha bisogno di te". E mi spinse con forza verso una specie di burrone.

Quando ho aperto gli occhi, ero sul tavolo dell'obitorio, pronto per l'autopsia. Ricordo ancora le urla del medico legale e del suo assistente. Stavano per squartarmi come un bue al macello, solo che ero ancora vivo.

Mi viene da ridere, oggi, ripensandoci. Chissà che spavento si saranno presi.

Comunque, tornando a Emily, quel giorno le piazzai davanti i suoi biscotti preferiti. Le dissi che, se non avesse detto il suo nome, non avrebbe potuto mangiarli. Solo che era più svelta di me e riuscì a fregarmi. Allora, provai con il latte. Il biberon era più pesante da prendere, in fondo. Ma neanche quella strategia andò a buon fine. Allora, la presi in braccio e la portai in salone. Ci eravamo appena trasferiti qui e non c'erano tutti i mobili che ci sono oggi. Ma il pianoforte era qualcosa a cui non riuscii a rinunciare. Lo suonavo da tutta la vita, era parte di me. Lena non lo sa, ma un giorno le confesserò anche questo.

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