Camminando in linea retta verso sud a partire dal tempio... Magari non proprio in linea retta, perché su quella via si elevavano due abitazioni e la bottega del fabbro della capitale. Quindi, tenendo in mente durante il tuo percorso quella linea retta, fermandoti di fronte alla fioraia e facendo un giro di centottanta gradi, ti ritroveresti davanti l'entrata di Da Tarsa.
Tarsa era la proprietaria della locanda, che poteva avere tra i trenta e i sessant'anni. Era un particolare che condividevano tutte le donne che la sera si prendevano la radice del naso mentre scarabocchiavano su un foglio i guadagni e ne sottraevano le spese, le tasse e gli imprevisti.
Non era un posto elegantissimo ed esclusivo come a La Coda Mozza, che stava a qualche isolato verso ovest e fuori aveva la fila di persone perbene, vestite perbene e dai gusti perbene. Un mendicante, una povera donna senza un bel vestito nell'armadio o un armadio, non si sognavano lontanamente di avvicinarsi a La Coda Mozza se non volevano essere cacciati a suon di scopa. Se per sbaglio il pensiero sfiorava loro per un attimo grande quanto quel che resta di una mollica di pane reduce dall'attacco di un piccione, si davano uno schiaffo sulla guancia e mettevano sotto i denti un bastoncino di legno immaginandolo di liquirizia per ingannare la voglia.
Al Da Tarsa, invece, poteva entrare chiunque potesse poggiare un soldo sulla tavola e a volte nemmeno quello. Capitava spesso che Tarsa puntasse un pugno sul fianco, agitasse la mano come a cacciar mosche e dicesse: "Mi pagherete la prossima volta", anche quand'era chiaro come il vetro nuovo di una finestra che una prossima volta non ci sarebbe state.
Tarsa metteva a disposizione una birra ghiacciata e un materasso al prezzo di una bottiglia di succo d'arancia ai pirati con gli occhi a mandorla, gli avventurieri dai capelli rossi, gli straccioni rimasti con un solo straccio, i gentiluomini e le gentildonne sposati ma non dove gli occhi curiosi potevano arrivare e soprattutto, i guerrieri della Compagnia degli Ammazzadraghi che ogni qualvolta che passavano per la capitale ci piazzavano le tende.
Conosceva i nomi di ognuno come la maestra di una classe e addirittura i soprannomi.
Vagava tra i tavoli con un vassoio carico di boccali sul fianco e salutava "Cannocchiale", "Lentiggini", "Occhi di gatto" e "Fiorellino".
Il cavaliere che chiamavano "Tronco", si sollevò per la prima volta l'elmo e lo poggiò sulle ginocchia. Scosse la testa: una lunga coda mora guizzò a destra e a sinistra fino ad accomodarsi sulla sua spalla.
Tronco aveva delle ciglia lunghissime, la fronte liscia e le labbra tinte di rosso.
Luka arrossì. «Non credevo che voi... portaste il rossetto.»
«A galoppo sarò pure un feroce guerriero, ma sotto l'armatura rimango una signorina. E se ricordo bene, è buona consuetudine che gli uomini offrino da bere a una signorina.» Scoccò un'occhiata al tenente che gli fece scordare indossasse una pesante corazza di ferro. «Dico bene, Braccioferrato?»
«Una signorina ha sempre ragione» ridacchiò Falchi che chiamò la locandiera con un cenno.
Luka era ancora sorpreso dalla rivelazione: non gli saltò in mente un momento, mentre si stringeva alla sua vita perché la sella era stretta, il dubbio che il cavaliere "Tronco" fosse una donna. Una donna altissima e molto attraente, con la voce profonda, che si diceva fosse stata trapassata da tre frecce ma senza l'accenno di voler cadere da cavallo.
Non sentì il vecchio col naso a forma di pera che si sporse verso il loro tavolo in un tentativo di attaccare bottone.
«Finché quella signorina non è Lees'sha...»
«Cambierei i toni, signore, se fossi in voi» lo riprese Tronco che allineò le sopracciglia come un'unica riga. «A meno che non vi piaccia mangiare capelli.»
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Il Regno Di Hod'ragen
FantasyIl regno di Hod'ragen è stato innalzato sulla carcassa di un drago, ai tempi in cui questi occupavano in massa la pianura che va dalle montagne Serpentine al Mare Gorgogliante. Regine dopo re e re dopo regine hanno mosso i primi passi su quel che r...