Sono così, i giovani!(1/2)

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Abbatticampione sapeva quello che stava per succedere. Lo sapeva da prima che lo trascinassero sotto il sole, da prima ancora che gli legassero il collo e il muso. Era la solita tiritera ogni anno: la sua libertà era grande pochi metri quadrati, grigi e bollenti, scaldati dai suoi sospiri malinconici. Non riusciva a ricordare com'era la vita di un drago libero, ma era sicuro di soffrirne alla nostalgia, che un poco lo teneva in vita e un poco lo uccideva. Il cibo che gli davano non era abbastanza e il movimento anche meno.

Poi, una volta all'anno, doveva sgranchire le zampe tutt'in una volta - le ali no, le ali si scordava pure di averle - e se non collaborava erano dolori. Quegli uomini lì non avevano tempo da perdere: lo legavano, lo tiravano e lo prendevano a calci e non lo guardavano mai negli occhi. Già, mai guardare un drago negli occhi, recitavano detti secolari, o ti balzerà in testa! Abbatticampione questa cosa non la sapeva, ma cominciava a capire.

E la luce... Spesso sognava il suo dolce ritorno alla luce, dove c'era l'aria, il calore e la libertà! Ma la realtà risultava tragicamente diversa: i mesi passati al buio rendevano accecante quella luce che nella sua immaginazione era una simpatica fiammella. Se faceva un confronto, là all'aria aperta percepiva un certo fresco. Infine, della libertà non ce n'era nemmeno l'ombra. Anzi, ogni ombra stagliata sul terreno polveroso di quell'arena era un giro di catena attorno il suo collo.

Strizzò gli occhi e scosse il muso. Quel gesto non piacque alla guardia di fianco a lui e si beccò un calcio sotto il mento. Ma lui non voleva scappare o sbranarlo o balzargli in testa, voleva solo vederci qualcosa.

Quindi vide, mano a mano che le sue pupille cambiavano e si adattavano alla luce, davanti a sé un uomo enorme che poteva circondargli il busto con le braccia e toccarsi le mani.

Abbatticampione conosceva il suo nome: Egar, detto "il Grosso", perché lo era veramente. Non era, invece, del tutto sicuro sul proprio. Ricordava come un sogno fatto da un altro un ammasso di lettere che si spostavano in continuazione, le aveva dette una voce di ragazza, forse... Ma questo non importava, perché dagli spalti le voce di donne, uomini e altro si sollevavano in un unico grido: «Abbatticampione!», lo stesso nome con cui quel soldatino con gli occhi blu l'aveva presentato al suo compagno. Forse era sempre stato quello.

Anche se non aveva senso: un campione non l'aveva mai sfiorato, mentre lui si faceva male ogni volta che ne incontrava uno. Ma non moriva, serviva vivo. Questo l'aveva capito.

Non odiava Egar il Grosso, con lui era sempre stato buono.

Un altro campione l'avrebbe trapassato da parte a parte senza scuse. Egar, invece, sfilava la spada dal fianco, gli circondava il collo col braccio e lo accarezzava con la lama, in maniera così rapida che si accorgeva solo dopo di star sanguinando e del dolore. Poi chiudeva gli occhi e diceva qualcosa in eirco. L'eirco, Abbatticampione, non lo parlava, ma era abbastanza sicuro che quella fosse una preghiera.

Guardò Egar sollevarsi rivolto agli spalti e alla giovane donna che era troppo lontana per cui potesse distinguerne i tratti. Ma era giovane, questo lo sapeva. Anche Egar era giovane e faceva quel che da giovani era: giocare e innamorarsi perdutamente. Forse anche Abbatticampione era giovane, o almeno, le era stato, ma con i ricordi se n'era andata la cognizione del tempo. Poteva vivere così da cento anni o pochi mesi.

Egar pizzicò la lama tra due dita. Portò il pollice bagnato alle labbra. Era il sangue di Abbatticampione a bagnarlo.

Fu l'ultima cosa che vide. Quindi ricominciarono le spinte e i calci e tornò nel buio. 

Il Regno Di Hod'ragenDove le storie prendono vita. Scoprilo ora