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Ci sono alcuni peccati per cui vale la pena finire all'Inferno

«Sei nervoso?», domandai a Mirko mentre si sistemava per la quinta volta il colletto della camicia azzurra. 

Mi osservò di sottecchi scuotendo la testa. «No, sto solo cercando di esaltare la mia perfezione».

Alzai gli occhi al cielo, ripetendo a me stessa che non mi sarei dovuta stupire di quella risposta. Nonostante volesse che tutto fosse impeccabile, quella cena non pareva turbarlo così come credevo. 

Le mie frecciatine non lo avevano minimamente scalfito e l'idea di passare ore intere con mia mamma e mio papà non lo toccavano. Era padrone della situazione.

Come ogni singola dannata volta. 

«Okay, ci sono», proclamò, rivolgendomi uno di quei sorrisi capaci di mozzarmi il respiro. «Direttive?». 

Scossi la testa, avvicinandomi. «Assolutamente nessuna», gli sfiorai la bocca con la mia, «ti avevo avvertito. Non ti offrirò alcun supporto», per sua sfortuna non avevo mai dimenticato quel piccolo avvertimento, «te la dovrai cavare da solo e non sarà così semplice». 

Avremmo giocato secondo le mie regole. 

Sebbene non avessi dubbi che sarebbe stato in grado di ammaliare entrambi, volevo metterlo alla prova. Avrei aggiunto un po' di fuoco a quella serata. 

Perchè Mirko Bottaccini era il tipico ragazzo che faceva buon viso a cattivo gioco. Quello capace di far colpo sui genitori in meno di dieci minuti, ma che poteva anche scoparti nella stanza a fianco alla loro solo per verificare quanto saresti stata una brava ragazza. 

Io non mi ero mai reputata tale. 

Prendendo le mie parole come una sfida velata, mi accarezzò il collo con il dorso dell'indice e del medio. «Sembra che tu mi stia sottovalutando, uragano».

«Ti sto solo dicendo che questa serata potrebbe rivelarsi più complessa di quello che pensavi».

Scrollò le spalle, avvicinandosi al mio orecchio. «La saprò gestire».

Quello era tutto da vedere. 

Scendemmo dall'auto e ci dirigemmo verso il ristorante.

Attraversammo Castelvecchio mentre le stelle che brillavano in cielo rendevano ancora più suggestivi gli scorci di paesaggio che si intravedevano fra le ghiere degli archi.

L'Adige scorreva sotto di noi, il suo famigliare gorgoglio creava un sottofondo al chiacchiericcio delle persone che passeggiavano sul ponte. 

Percorrendo buona parte di Corso Cavour ci impiegammo una decina di minuti per arrivare allo Yard.

Immergendoci nell'eleganza minimale della stanza, trascinai Mirko verso il tavolo che mio padre prenotava sempre.

Quello era uno dei suoi ristoranti preferiti e le conoscenze al suo interno lo aiutavano ad ottenere ciò che voleva. 

I miei genitori erano già seduti uno di fianco all'altra. Parlavano sottovoce, posati e controllati.

Mia mamma fu la prima ad accorgersi della nostra presenza. «Ciao tesoro», si alzò per darmi un bacio sulla guancia. 

«Ciao mamma», ricambiai. 

Stretta in un tubino panna, le maniche a tre quarti, uno scollo quadrato e una cintura marrone che evidenziava il punto vita, fece lo stesso con il mio ragazzo. 

«Ciao Mirko». 

Rispose con un cenno, rivolgendole un ampio sorriso. «Buona sera, Agnese». 

Non era la prima volta che si vedevano.

Baciami ancoraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora