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A volte si riconosce il valore di un momento solo quando diventa un ricordo

Tre minuti, il tempo di una canzone. 

Ecco quanto mi mancava per arrivare a casa di mio padre. Solo tre banalissimi minuti. Potevano scorrere in un battito di ciglia così come potevano rappresentare la più straziante delle torture.  

Correndo sull'asfalto, iniziavo a sentire i polmoni chiedere pietà. La musica mi spingeva ad andare oltre i limiti che il mio corpo mi gridava di rispettare. 

Continuai fino a perdere il fiato.

Avevo la necessità di sentire ogni muscolo bruciare e la testa concentrarsi solo sul mio respiro. Era l'unico modo per mettere a tacere il caos che mi tormentava. 

Arrivare alla conclusione della settimana mi aveva stremato.

Le voci si erano fatte più fantasiose, fin troppe ragazze mi avevano chiesto se fosse tutto vero, Aurora ancora non sapeva che frequentavo suo fratello e Luna e Margherita erano partite per la gita. 

Due minuti. 

L'unica persona che mi faceva sentire come se tutto potesse essere risolto, come se ogni problema avesse la sua soluzione, era anche quella alla quale avevo fatto una promessa che non stavo mantenendo. 

Un minuto.

Non avevo fatto altro che posticipare, terrorizzata dalle conseguenze. Rimandavo l'inevitabile e mi lasciavo trascinare a fondo da una patetica ansia.

Con il cuore a mille, le guance arrossate e la canzone che stava per finire, varcai la soglia del parchetto vicino a casa di mio padre. 

Respirai a bocca aperta, affannata e con delle gocce di sudore che mi scendevano sulla fronte e sul collo. Lentamente, cercando di tornare ad un battito cardiaco regolare, mi sedetti sulla stessa panchina su cui mi aveva trascinato Mirko. 

Tolsi le cuffiette e mi concentrai sull'albero davanti a me. 

Lo ricordavo spoglio, succube dell'inverno e delle sue temperature rigide.

In quel momento piccoli boccioli bianchi adornavano la sua chioma e non sembrava più così piccolo, solo e indifeso. Spiccava con una bellezza delicata, una di quelle che facevano innamorare. 

«Ehi».

Sobbalzai per lo spavento, voltandomi di scatto con una mano sul petto. 

Samuele se ne stava in piedi con delle cartelline colorate fra le mani e un sorriso accennato sulle labbra. 

«Mi hai fatto prendere un colpo!», respirai a fondo. 

«Pensavo mi avessi sentito arrivare», alzò le spalle in un gesto naturale.

Le striature dorate che luccicavano nell'iride color cioccolato sembrarono prendere vita a contatto con il sole. Ero sempre stata affascinata dal modo in cui la luce rendesse così intenso il suo sguardo. 

«Ero con la testa altrove», replicai vaga, «come mai sei qui?». 

Non mi aspettavo di vederlo, soprattutto a seguito del disastro a scuola. 

Da quanto sapevo, dopo una sfuriata iniziale da parte di Carlotta, avevano parlato e chiarito la situazione. Peccato che, quello, non cancellasse le chiacchiere che ogni giorno dovevamo ascoltare. 

A differenza delle previsioni di Aurora, la voce si era sparsa ulteriormente e non vedevo l'ora che l'attenzione generale si spostasse su qualcun altro. 

L'unica nota positiva era stata la reazione di Samuele. 

Non era in grado di sostenere le provocazioni senza reagire, lo sapevo bene. Perdeva le staffe più facilmente di quanto desse a vedere. Le litigate durante la nostra relazione ne erano la prova, così come il pugno dato a Federico fuori da scuola. 

Baciami ancoraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora