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Si chiamano sentimenti perché non possono essere spiegati. Altrimenti diventano ragionamenti

Non rimasi a lungo nella mia stanza. 

In quel marasma di avvenimenti ed emozioni avevo compreso che, rimanere da sola, non mi avrebbe aiutato. Piangere in silenzio non avrebbe agevolato la chiusura di quello squarcio che, per troppo tempo, era rimasto aperto. Mi mancava ancora un passaggio. 

Uscii con gli occhi rossi nella speranza di fare la cosa giusta. 

Mio padre era seduto fuori dalla porta.

Si fermò dal battere ritmicamente le dita sul ginocchio non appena mi vide, alzandosi e trascinandomi in un abbraccio. Uno di quegli abbracci in grado di farti capire che si può sempre trovare una soluzione, così stretti da lasciarti senza fiato, fondamentali nel piccolo di ognuno.

Lasciai che mi avvolgesse come quando ero piccola e tutto andava bene. Gli permisi di condividere parte di quel dolore che, fino a quel momento, non avevo avuto alcuna intenzione di far trapelare. 

Andammo a sederci sul divano al piano inferiore e gli parlai a cuore aperto. Gli raccontai di ciò che avevo detto alla mamma e di come, il loro divorzio, aveva avuto un effetto alquanto deleterio su alcuni aspetti della mia vita. 

Cercai di liberare ogni parte di me che era sempre rimasta intrappolata in una gabbia di apparente forza. Perché, se c'era una cosa che avevo capito, era che non ero affatto forte. Tutt'altro. Ero caduta a pezzi troppe volte e per ognuna di esse avevo finto che nulla fosse mai accaduto. Ma non era così. 

Dovevo prima di tutto accettare di non essere invincibile per potermi rialzare. 

Quasi mi stupii quando si rivelò una delle persone migliori con cui parlare.

Scelse le sue stesse parole con accortezza, utilizzando un tono di voce dolce e rassicurante. Mi consolò nel massimo delle sue capacità, si emozionò almeno tanto quanto me, si scusò per non avermi capito prima e mi fece promettere che avremo parlato tutti e tre insieme. Accordai senza nemmeno pensarci.

Ne avevo bisogno per voltare pagina. 

Quella stessa sera chiamai mia zia, esponendole a grandi linee ciò che era successo. Rimanemmo al telefono un paio d'ore e mi addormentai con un accenno di mal di testa persistente. 

Il giorno successivo, dopo scuola, approfittai del pomeriggio passato con le ragazze per aggiornarle su quel fine settimana.

Tralasciai ogni particolare riconducibile a Mirko, riassumendo quei giorni a Milano e il mio rientro. Soprattutto il mio rientro. Quello era il punto focale. 

Mi ascoltarono attente e, solo alla fine, mi travolsero con una serie di commenti. Si compiacquero per la mia scelta e si premurarono di evidenziare che ci sarebbero sempre state. Per qualsiasi cosa. 

Ciò non fece altro che aumentare il peso causato dalla frequentazione che gli stavo nascondendo. Schiacciata da quella sensazione, tentai persino di introdurre l'argomento, tuttavia non ci riuscii. Mi bloccai ancora prima di cominciare. 

Ripromisi a me stessa di trovare un momento più adatto, lasciando che si passasse ad argomenti ben più frivoli. Avevamo affrontato abbastanza macigni per la giornata. 

Parlammo della gita scolastica, della nuova cotta di Luna per un ragazzo incontrato in biblioteca e Margherita ci aggiornò su un nuovo corso di pittura con l'aerografo che stava seguendo.

L'ultimo a cui rivelai di quello sfogo improvvisato fu Mirko. Rimase in silenzio mentre parlavo, lasciando che ricomponessi tutti i pezzi. Apprezzai quel suo modo di essere presente più di quanto pensassi. 

Baciami ancoraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora