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La vita, mia cara, è un palcoscenico dove si gioca a fare sul serio

Dopo l'incontro indesiderato in bagno, la serata con le ragazze si rivelò più complicata del previsto. 

Sviai le loro domande sul motivo per il quale ci avessi messo così tanto, inventandomi che la pizza mi era rimasta sullo stomaco.

Optai per quella piccola bugia bianca perché non ero minimamente preparata ad affrontare Aurora, rivelandole che stavo quasi frequentando suo fratello. E di certo non ero affatto pronta a dover far fronte ad un interrogatorio generale. 

Avevo sperimentato agli inizi della relazione con Samuele la loro particolare dote nell'impicciarsi. Non mi sembrava il caso di averci ancora a che fare. Soprattutto considerando che non vi era assolutamente niente di certo. In quel momento tutto rappresentava un'incognita.

Tentai di concentrarmi invano sui loro discorsi. Tuttavia non riuscii a smettere di pensare a ciò che era accaduto poco prima. Mi chiesi persino fino a che punto mi sarei spinta se Aurora non ci avesse interrotto. 

Odiavo il potere che quel ragazzo stava iniziando ad avere sulla mia mente. Ogni pensiero veniva modellato a sua immagine e somiglianza, come creta nelle mani di un abile scultore. 

Che fastidio.

Le emozioni che provavo in sua compagnia erano incredibilmente confusionarie. Passavo costantemente dal volerlo prendere a sberle a desiderare che mi baciasse.

Ero certa mi avrebbe portato all'esasperazione. O peggio, ad entrare di mia spontanea volontà in un centro psichiatrico. E non uscirne mai più. 

Ci addormentammo tardi e la mattina successiva fu un trauma. Andare a scuola risultò possibile solo alla quantità esorbitante di zuccheri che ingerimmo.

Tuttavia, i giorni seguenti furono decisamente più facili da superare. 

Malgrado l'asfissiante programma portato avanti dai professori, le interrogazioni e le verifiche, il fatto che la tensione con Samuele si fosse alleviata, agevolò il trascorrere delle ore scolastiche. 

Non avrei mai potuto dire altrettanto per quanto riguardava il distacco con mia mamma. 

Iniziai a capire da chi avessi preso tutta quella testardaggine.

Lei non aveva intenzione di fare marcia indietro, sempre convinta dei suoi stupidissimi ideali. Io la ignoravo in tutti i modi possibili, imperterrita e senza alcuna voglia di trovare un punto d'accordo. 

Non accettava il fatto che avessi scelto di stare da mio padre e, men che meno, che stessi facendo tutto il contrario di ciò che voleva. Aveva preso quell'orribile vizio di voler controllare ogni cosa, compresa sua figlia. Come se non stessimo parlando della mia vita, ma solo delle conseguenze che le mie scelte avrebbero potuto avere sul futuro che aveva costruito per me. 

Non vedeva come mi faceva sentire e non mi ascoltava davvero quando le parlavo. Starle accanto non faceva altro che ampliare il dolore che percepivo nel petto ad ogni sua contestazione.

Per quel motivo decisi di prolungare la mia permanenza da mio padre. Preferivo illudermi che il tempo potesse risolvere la situazione. 

L'unica nota dolente che aveva iniziato ad assillarmi, era la mancata di possibilità di utilizzare la mia auto. 

Avevo tentato di convincere mio padre ad usare la sua, ma era stato categorico. Non avevo ancora superato l'anno di patente e la cilindrata della sua macchina non rientrava nei canoni. 

«Aldegheri!», la voce del coach si espanse nella palestra ad appena quindici minuti dalla fine dell'allenamento. «Vieni immediatamente qui!». 

Stavamo facendo gli ultimi esercizi della serata. Il fatto che mi avesse chiamato all'improvviso mi aveva fatto perdere la concentrazione, rischiando quasi di essere assalita da un tiro di una mia compagna. 

Baciami ancoraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora